Femminità

Da Ortosociale.

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Elisabeth Badinter esprime lo stereotipo maschile come meglio non si  potrebbe quando afferma che l’uomo (vir) si vive come universale (homo), considerandosi il rappresentante più compiuto e il punto di riferimento dell'umanità. (XY L’identità maschile, Longanesi, Milano 1993). Suo carattere distintivo è ''la razionalità''. La costante e puntigliosa valorizzazione del modello, portata avanti per millenni, compenetrando ad ogni livello ed in ogni parte tutti gli aspetti della vita associata, ha prodotto un’interiorizzazione forzosa e irriflessiva dello stesso. Così la valutazione positiva ha finito per coinvolgere anche gli aspetti negativi tipici di questo sesso, come la tendenza al predominio e alla prevaricazione, obiettivamente contradditori rispetto al principio che vuole l’uomo razionale, olimpico, spirituale. D’altronde l'inconsistenza del modello scaturisce in modo certo ed inequivocabile dalla generale irrazionalità e dalla diffusa disumanizzazione endemiche nelle comunità androcratiche. Oramai nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’inadeguatezza del sistema di pensiero che si picca di governare il mondo in solitaria. A quale superiore razionalità risponde l’impiego massiccio a livello planetario di risorse in attività militari che trasformano le energie accumulate direttamente in distruzione e rovina? Il compito di ogni stato dovrebbe essere '''garantire e gestire la vita''' dei suoi cittadini, non metterla a repentaglio. Malgrado sia possibile produrre beni per una popolazione mondiale doppia di quella che abita oggi il pianeta, si trova il modo di far morire di inedia circa un miliardo di persone. I bambini sono le maggiori vittime di tale, dissennato  governo del mondo: ogni 3 secondi un bambino muore di fame, mentre molti altri vengono uccisi nei conflitti armati dalle cosiddette ''bombe intelligenti'' e dalle mine antiuomo sparse ''intelligentemente'' sul territorio. Che dire, poi, della brutale oppressione di metà dell’umanità, proprio quella a cui la specie deve l'esistenza e la propria evoluzione? Poiché le donne costruiscono il vivente umano lo conoscono, poiché se ne prendono cura sanno che cosa gli serve per vivere; la cancellazione del sapere femminile ha prodotto attorno al vivente e ai suoi bisogni un’ignoranza abissale, in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa della specie. L’irrazionalità del pensiero dominante diventa addirittura tangibile quando le scelte danneggiano palesemente anche l’uomo che le fa, come ad esempio quando si spende per rendere progressivamente inadatto alla vita il pianeta che lo ospita, ignorando il fatto che sta attentando alla propria sopravvivenza. Si potrebbero aggiungere innumerevoli altri esempi senza riuscire a completare '''l’infinita serie di nonsense che rende le società umane simili a manicomi'''. D’altra parte i risultati degli esperimenti funzionali in vivo sul cervello umano assestano un duro colpo all’immagine dell’uomo unico detentore della ragione con la erre maiuscola, perché delineano la fisionomia di un primitivo, portato ad agire impulsivamente, senza sottoporre le sue risposte al vaglio della ragione.  Se dalle ricerche (v. ad esempio Paolo Pancheri, “La razza dei sessi”, in Giornale italiano di psicopatologia, n.4, vol.5, dicembre 1999) emerge la figura di un uomo tagliato più per il movimento che per la riflessione, più per l’azione istintiva che per il ragionamento attento e meditato, mentre la donna appare socialmente più evoluta, non risulta del tutto falsa la gerarchia fra i sessi data per scontata nelle società dei padri? Se, poi, l’encefalo femminile risulta più equilibrato e più plastico, avendo una rete organizzativa più omogenea, quindi con maggiori capacità di integrazione e di risposte (v. Umberto Dinelli, Il nostro cervello: viaggio dentro la conoscenza, i sentimenti, le emozioni, Marsilio, Venezia 2000), non dovrebbe tutta la specie far propria l’impostazione mentale delle donne per garantirsi la sopravvivenza e una buona qualità della vita?
Elisabeth Badinter esprime lo stereotipo maschile come meglio non si  potrebbe quando afferma che l’uomo (vir) si vive come universale (homo), considerandosi il rappresentante più compiuto e il punto di riferimento dell'umanità. (XY L’identità maschile, Longanesi, Milano 1993). Suo carattere distintivo è ''la razionalità''. La costante e puntigliosa valorizzazione del modello, portata avanti per millenni, compenetrando ad ogni livello ed in ogni parte tutti gli aspetti della vita associata, ha prodotto un’interiorizzazione forzosa e irriflessiva dello stesso. Così la valutazione positiva ha finito per coinvolgere anche gli aspetti negativi tipici di questo sesso, come la tendenza al predominio e alla prevaricazione, obiettivamente contradditori rispetto al principio che vuole l’uomo razionale, olimpico, spirituale. D’altronde l'inconsistenza del modello scaturisce in modo certo ed inequivocabile dalla generale irrazionalità e dalla diffusa disumanizzazione endemiche nelle comunità androcratiche. Oramai nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’inadeguatezza del sistema di pensiero che si picca di governare il mondo in solitaria. A quale superiore razionalità risponde l’impiego massiccio a livello planetario di risorse in attività militari che trasformano le energie accumulate direttamente in distruzione e rovina? Il compito di ogni stato dovrebbe essere '''garantire e gestire la vita''' dei suoi cittadini, non metterla a repentaglio. Malgrado sia possibile produrre beni per una popolazione mondiale doppia di quella che abita oggi il pianeta, si trova il modo di far morire di inedia circa un miliardo di persone. I bambini sono le maggiori vittime di tale, dissennato  governo del mondo: ogni 3 secondi un bambino muore di fame, mentre molti altri vengono uccisi nei conflitti armati dalle cosiddette ''bombe intelligenti'' e dalle mine antiuomo sparse ''intelligentemente'' sul territorio. Che dire, poi, della brutale oppressione di metà dell’umanità, proprio quella a cui la specie deve l'esistenza e la propria evoluzione? Poiché le donne costruiscono il vivente umano lo conoscono, poiché se ne prendono cura sanno che cosa gli serve per vivere; la cancellazione del sapere femminile ha prodotto attorno al vivente e ai suoi bisogni un’ignoranza abissale, in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa della specie. L’irrazionalità del pensiero dominante diventa addirittura tangibile quando le scelte danneggiano palesemente anche l’uomo che le fa, come ad esempio quando si spende per rendere progressivamente inadatto alla vita il pianeta che lo ospita, ignorando il fatto che sta attentando alla propria sopravvivenza. Si potrebbero aggiungere innumerevoli altri esempi senza riuscire a completare '''l’infinita serie di nonsense che rende le società umane simili a manicomi'''. D’altra parte i risultati degli esperimenti funzionali in vivo sul cervello umano assestano un duro colpo all’immagine dell’uomo unico detentore della ragione con la erre maiuscola, perché delineano la fisionomia di un primitivo, portato ad agire impulsivamente, senza sottoporre le sue risposte al vaglio della ragione.  Se dalle ricerche (v. ad esempio Paolo Pancheri, “La razza dei sessi”, in Giornale italiano di psicopatologia, n.4, vol.5, dicembre 1999) emerge la figura di un uomo tagliato più per il movimento che per la riflessione, più per l’azione istintiva che per il ragionamento attento e meditato, mentre la donna appare socialmente più evoluta, non risulta del tutto falsa la gerarchia fra i sessi data per scontata nelle società dei padri? Se, poi, l’encefalo femminile risulta più equilibrato e più plastico, avendo una rete organizzativa più omogenea, quindi con maggiori capacità di integrazione e di risposte (v. Umberto Dinelli, Il nostro cervello: viaggio dentro la conoscenza, i sentimenti, le emozioni, Marsilio, Venezia 2000), non dovrebbe tutta la specie far propria l’impostazione mentale delle donne per garantirsi la sopravvivenza e una buona qualità della vita?
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'''LA TEORIA DEL CORPO PENSANTE'''
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Essendo organismi, le maggiori conoscenze femminili sui viventi dovrebbero tornare utili anche agli uomini; come mai essi non riconoscono tale elementare verità? Come mai da millenni ripetono lo stesso copione, modificandolo solo nella forma anche quando sanguinose rivoluzioni tenderebbero ad intaccarne i caratteri strutturali? Com’è possibile che la tanto glorificata ragione maschile, promossa ad unica e insuperabile detentrice delle superiori capacità della specie, sia refrattaria all’apprendimento, ma, soprattutto, com’è che si traduce in una macroscopica inadeguatezza a gestire razionalmente comunità di viventi quali noi siamo? La ragione femminile sembra al contrario adattiva per l’intera specie; la civile operosità della maggior parte delle donne nel mondo lo rivela e gli studi scientifici sopra ricordati lo confermano al di là di ogni ragionevole dubbio. I quesiti più pressanti, che esigono serie e irrinunciabili risposte, possono essere così formulati: una differenza tanto marcata nel modo di intenzionare il mondo da parte di donne e uomini dipende forse dal fatto che le une e gli altri sono organismi differenti? E ancora: che cos’è in realtà la mente? Poiché considera la mente un processo del corpo biologico la teoria del corpo pensante (v. Angela Giuffrida – Il corpo pensa – Umanità o femminità?, Prospettiva Edizioni, 2002), permette di rispondere ad entrambi gli interrogativi. Essa propone un sistema concettuale atto a comporre in unità tutto il reale, a partire dall'inscindibilità di corpo e mente. Si tratta di un nuovo paradigma conoscitivo che assimila la conoscenza all'intero organismo, facendo del corpo il vero soggetto pensante, capace di dare, attraverso la sua forma e la sua esperienza, forma al pensiero. La teoria nasce da un approccio critico al pensiero filosofico, che ha portato all'individuazione di alcuni meccanismi mentali costanti, e dalla percezione dell'intrinseca intelligenza e autonomia del vivente, che ne ha consentito l'attribuzione alla mente maschile. Se ogni organismo è un sistema che si auto organizza e si autoregola, dev'essere principalmente un sistema cognitivo; se è così, l'organismo femminile possiede per forza di cose un sapere altro, più vasto e comprensivo, dato che protrae la vita. Essendo strutturati in modo differente, donne e uomini fanno esperienze molto diverse e si sono, quindi, evoluti diversamente. Dall'esperienza materna la donna ricava una forma mentis contenitiva, capace di "sopportare" la complessità e la ricchezza del reale, propensa a costruire, connettere, combinare, quindi ad operare scelte favorevoli alla vita e alla crescita. L'uomo, invece, non contenendo l'altro nel suo corpo e percependosi come parte della madre, sviluppa uno sguardo parziale sia sul mondo che su di sé e, non essendo portato a cogliere connessioni fra le parti, adopera l'opposizione. Isolare un dato, separarlo dal contesto, opporlo agli altri dati costituisce la modalità tipica del suo rapporto col mondo, tant'è che non solo impronta le relazioni alla conflittualità e lacera tutto il reale in parti contrapposte, ma riproduce la dicotomia persino nella percezione di sé: l'anima confligge con il corpo, la logica con l'affettività e così via. Inoltre, siccome procrea fuori di sé, è proiettato verso l'esterno, perciò è incline a vivere "fuori dal proprio corpo" e a mettere l'accento sull'ideale-generale-astratto, privilegiando la ragione, una ragione che, sciolta da legami con il naturale-corporeo e priva di un adeguato sviluppo dell'affettività, non esercitata come quella femminile nel dare e sostenere la vita, si è evoluta in forme non omogenee di intelligenza settoriale. I1 mondo atomizzato, conflittuale, astratto che l'uomo ci presenta è il suo mondo, ma viene confuso con la realtà tout court visto che la weltanschauung maschile è stata attribuita all'intera specie.

Versione delle 17:03, 6 gen 2011

Il termine FEMMINITA' nasce dall'esigenza di superare lo stereotipo che la parola FEMMINILITA' restituisce semplicisticamente di un universo ricco, complesso, in continuo divenire. L’insieme di caratteristiche attribuite dal pensiero dominante alla donna riduce, infatti, drasticamente gli aspetti, le capacità e le potenzialità che le appartengono. Opposto al modello virile, sinonimo di razionalità, forza e coraggio, sicurezza e risolutezza nell’azione, il femminile si distingue per emotività, assimilata dall’apparato cognitivo prevalente ad irrazionalità, debolezza, pavidità, insicurezza e passività. Il quadro rimanda l’idea di una donna dipendente dall’uomo, incapace di governare la propria vita, quindi inadatta a gestire la cosa pubblica. La perdita della qualità di soggetto ha giustificato la millenaria prigionia nella sfera domestica. Purtroppo i due stereotipi resistono ancora oggi, malgrado la seppur contenuta partecipazione femminile alla vita pubblica ne evidenzi l’intima inconsistenza peraltro confermata, al di là di ogni ragionevole dubbio, dalle ricerche scientifiche. Il loro superamento, attraverso una sistematica decostruzione, si pone pertanto, come inderogabile necessità.

STEREOTIPO FEMMINILE

Perché ci sia vera decostruzione non si può prescindere da un confronto costante e serrato con la realtà. Esaminiano prima lo stereotipo femminile. Le ricerche condotte in tutto il mondo evidenziano la priorità degli organismi in grado di riprodursi, quelli femminili appunto, che, applicandosi all’autocostruzione, hanno dato origine ciascuno alla propria specie. Secondo il concetto organizzativo elaborato dai biologi, quello femminile è il sesso di base mentre quello maschile è il sesso sviluppato in seguito. A tal proposito David Crews sostiene che il sesso maschile si sia sicuramente evoluto solo dopo la comparsa dei primi organismi autoreplicanti, quelli femminili, per cui quello femminile è il sesso ancestrale e quello maschile il derivato (La sessualità degli animali, in Le scienze n. 307, marzo 1994). I recenti esperimenti sulla clonazione, inoltre, indicano nella madre il soggetto che permette lo sviluppo e l’evoluzione della specie. In un’intervista al settimanale Panorama del 25 febbraio 1999, il professor Renato Dulbecco, Premio Nobel 1975 per la medicina, ha spiegato come il meccanismo della clonazione abbia evidenziato l’importante ruolo svolto dal citoplasma della cellula uovo nel ringiovanimento del nucleo ospite e nell’attivazione del processo di sviluppo. Sottolinea che il fenomeno ha un interesse filosofico oltre che biologico, perché mostra come già da principio il contributo materno sia fondamentale, infatti lo sviluppo dell’umanità è dovuto alle madri, non solo per lo sviluppo intrauterino e per la cura del neonato, ma anche nel dirigere l’attività dei geni verso lo sviluppo. Ma non basta, alcune ricerche collegano l’evoluzione cerebrale dei mammiferi allo sviluppo del comportamento materno (“Il cervello materno” in Le Scienze di marzo 2006), mentre altre attribuiscono alla madre la costruzione della corteccia cerebrale tout court (Keverne E. Barry, “Genomic Imprinting in the Brain” in Current opinion in Neurobiology, n. 7, 1997).I numerosi studi sul dimorfismo cerebrale tra donne e uomini, poi, presentano un cervello femminile più plastico, più attivo, più sviluppato nelle zone riservate ai processi superiori di elaborazione e al linguaggio e con una comunicazione interemisferica facilitata. Dal loro insieme emerge l’idea di un corpo femminile che reagisce complessivamente in modo più evoluto agli stimoli perché le donne riescono a discernere meglio le situazioni rispetto agli uomini. Sembra che abbiano, insomma, più testa, cosa confermata peraltro dalla civile attività quotidiana della stragrande maggioranza delle donne nel mondo, altamente razionale perché funzionale alla vita. Stando così le cose, non è errato affermare che sia stato il cosiddetto secondo sesso, come viene definito contro ogni evidenza il sesso femminile, a far compiere un deciso salto di qualità alla nostra specie differenziandola dalle altre. Può allora lo stereotipo definito sopra attagliarsi a colei che ha fondato la specie, permettendole non solo di sopravvivere ma di evolversi in modo tanto significativo?

STEREOTIPO MASCHILE

Elisabeth Badinter esprime lo stereotipo maschile come meglio non si potrebbe quando afferma che l’uomo (vir) si vive come universale (homo), considerandosi il rappresentante più compiuto e il punto di riferimento dell'umanità. (XY L’identità maschile, Longanesi, Milano 1993). Suo carattere distintivo è la razionalità. La costante e puntigliosa valorizzazione del modello, portata avanti per millenni, compenetrando ad ogni livello ed in ogni parte tutti gli aspetti della vita associata, ha prodotto un’interiorizzazione forzosa e irriflessiva dello stesso. Così la valutazione positiva ha finito per coinvolgere anche gli aspetti negativi tipici di questo sesso, come la tendenza al predominio e alla prevaricazione, obiettivamente contradditori rispetto al principio che vuole l’uomo razionale, olimpico, spirituale. D’altronde l'inconsistenza del modello scaturisce in modo certo ed inequivocabile dalla generale irrazionalità e dalla diffusa disumanizzazione endemiche nelle comunità androcratiche. Oramai nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’inadeguatezza del sistema di pensiero che si picca di governare il mondo in solitaria. A quale superiore razionalità risponde l’impiego massiccio a livello planetario di risorse in attività militari che trasformano le energie accumulate direttamente in distruzione e rovina? Il compito di ogni stato dovrebbe essere garantire e gestire la vita dei suoi cittadini, non metterla a repentaglio. Malgrado sia possibile produrre beni per una popolazione mondiale doppia di quella che abita oggi il pianeta, si trova il modo di far morire di inedia circa un miliardo di persone. I bambini sono le maggiori vittime di tale, dissennato governo del mondo: ogni 3 secondi un bambino muore di fame, mentre molti altri vengono uccisi nei conflitti armati dalle cosiddette bombe intelligenti e dalle mine antiuomo sparse intelligentemente sul territorio. Che dire, poi, della brutale oppressione di metà dell’umanità, proprio quella a cui la specie deve l'esistenza e la propria evoluzione? Poiché le donne costruiscono il vivente umano lo conoscono, poiché se ne prendono cura sanno che cosa gli serve per vivere; la cancellazione del sapere femminile ha prodotto attorno al vivente e ai suoi bisogni un’ignoranza abissale, in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa della specie. L’irrazionalità del pensiero dominante diventa addirittura tangibile quando le scelte danneggiano palesemente anche l’uomo che le fa, come ad esempio quando si spende per rendere progressivamente inadatto alla vita il pianeta che lo ospita, ignorando il fatto che sta attentando alla propria sopravvivenza. Si potrebbero aggiungere innumerevoli altri esempi senza riuscire a completare l’infinita serie di nonsense che rende le società umane simili a manicomi. D’altra parte i risultati degli esperimenti funzionali in vivo sul cervello umano assestano un duro colpo all’immagine dell’uomo unico detentore della ragione con la erre maiuscola, perché delineano la fisionomia di un primitivo, portato ad agire impulsivamente, senza sottoporre le sue risposte al vaglio della ragione. Se dalle ricerche (v. ad esempio Paolo Pancheri, “La razza dei sessi”, in Giornale italiano di psicopatologia, n.4, vol.5, dicembre 1999) emerge la figura di un uomo tagliato più per il movimento che per la riflessione, più per l’azione istintiva che per il ragionamento attento e meditato, mentre la donna appare socialmente più evoluta, non risulta del tutto falsa la gerarchia fra i sessi data per scontata nelle società dei padri? Se, poi, l’encefalo femminile risulta più equilibrato e più plastico, avendo una rete organizzativa più omogenea, quindi con maggiori capacità di integrazione e di risposte (v. Umberto Dinelli, Il nostro cervello: viaggio dentro la conoscenza, i sentimenti, le emozioni, Marsilio, Venezia 2000), non dovrebbe tutta la specie far propria l’impostazione mentale delle donne per garantirsi la sopravvivenza e una buona qualità della vita? LA TEORIA DEL CORPO PENSANTE Essendo organismi, le maggiori conoscenze femminili sui viventi dovrebbero tornare utili anche agli uomini; come mai essi non riconoscono tale elementare verità? Come mai da millenni ripetono lo stesso copione, modificandolo solo nella forma anche quando sanguinose rivoluzioni tenderebbero ad intaccarne i caratteri strutturali? Com’è possibile che la tanto glorificata ragione maschile, promossa ad unica e insuperabile detentrice delle superiori capacità della specie, sia refrattaria all’apprendimento, ma, soprattutto, com’è che si traduce in una macroscopica inadeguatezza a gestire razionalmente comunità di viventi quali noi siamo? La ragione femminile sembra al contrario adattiva per l’intera specie; la civile operosità della maggior parte delle donne nel mondo lo rivela e gli studi scientifici sopra ricordati lo confermano al di là di ogni ragionevole dubbio. I quesiti più pressanti, che esigono serie e irrinunciabili risposte, possono essere così formulati: una differenza tanto marcata nel modo di intenzionare il mondo da parte di donne e uomini dipende forse dal fatto che le une e gli altri sono organismi differenti? E ancora: che cos’è in realtà la mente? Poiché considera la mente un processo del corpo biologico la teoria del corpo pensante (v. Angela Giuffrida – Il corpo pensa – Umanità o femminità?, Prospettiva Edizioni, 2002), permette di rispondere ad entrambi gli interrogativi. Essa propone un sistema concettuale atto a comporre in unità tutto il reale, a partire dall'inscindibilità di corpo e mente. Si tratta di un nuovo paradigma conoscitivo che assimila la conoscenza all'intero organismo, facendo del corpo il vero soggetto pensante, capace di dare, attraverso la sua forma e la sua esperienza, forma al pensiero. La teoria nasce da un approccio critico al pensiero filosofico, che ha portato all'individuazione di alcuni meccanismi mentali costanti, e dalla percezione dell'intrinseca intelligenza e autonomia del vivente, che ne ha consentito l'attribuzione alla mente maschile. Se ogni organismo è un sistema che si auto organizza e si autoregola, dev'essere principalmente un sistema cognitivo; se è così, l'organismo femminile possiede per forza di cose un sapere altro, più vasto e comprensivo, dato che protrae la vita. Essendo strutturati in modo differente, donne e uomini fanno esperienze molto diverse e si sono, quindi, evoluti diversamente. Dall'esperienza materna la donna ricava una forma mentis contenitiva, capace di "sopportare" la complessità e la ricchezza del reale, propensa a costruire, connettere, combinare, quindi ad operare scelte favorevoli alla vita e alla crescita. L'uomo, invece, non contenendo l'altro nel suo corpo e percependosi come parte della madre, sviluppa uno sguardo parziale sia sul mondo che su di sé e, non essendo portato a cogliere connessioni fra le parti, adopera l'opposizione. Isolare un dato, separarlo dal contesto, opporlo agli altri dati costituisce la modalità tipica del suo rapporto col mondo, tant'è che non solo impronta le relazioni alla conflittualità e lacera tutto il reale in parti contrapposte, ma riproduce la dicotomia persino nella percezione di sé: l'anima confligge con il corpo, la logica con l'affettività e così via. Inoltre, siccome procrea fuori di sé, è proiettato verso l'esterno, perciò è incline a vivere "fuori dal proprio corpo" e a mettere l'accento sull'ideale-generale-astratto, privilegiando la ragione, una ragione che, sciolta da legami con il naturale-corporeo e priva di un adeguato sviluppo dell'affettività, non esercitata come quella femminile nel dare e sostenere la vita, si è evoluta in forme non omogenee di intelligenza settoriale. I1 mondo atomizzato, conflittuale, astratto che l'uomo ci presenta è il suo mondo, ma viene confuso con la realtà tout court visto che la weltanschauung maschile è stata attribuita all'intera specie.

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