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Versione delle 21:26, 15 mar 2011
Una domanda decisiva su come realizzare la cittadinanza femminile
di Angela Giuffrida
Col suo articolo "Interrogativi dopo le elezioni" [riprodotto nel n. 903 di
questo foglio] Giancarla Codrignani da' un contributo davvero interessante
alla riflessione circa la strana afasia che impedisce la realizzazione della
cittadinanza femminile.
Individua il punto nodale della questione nella difficolta' a riconoscere
che gli uomini non sono alleati delle donne nella lotta per la liberta' di
genere e, secondo me, ha perfettamente ragione. Nondimeno, perche' "la
consapevolezza di essere sole" serva da propellente per l'affermazione di
se', occorre porsi una domanda che le donne esitano a formulare, nonostante
si imponga per forza propria. Provo a farla sorgere "spontaneamente".
Scrive Giancarla: "i partiti sono al massimo disposti a rinunciare a qualche
posto per attribuirlo alle donne, purche' nessuna si sogni di modificare il
modello delle politiche e la qualita' dei diritti". Come reagiscono le donne
di fronte alla irragionevole pretesa maschile di continuare ad "occupare" la
societa' e a dettare legge "in solitaria"? Prendono la parola ovunque ma
"con misura e mai in chiesa", e le stesse amministratrici si limitano ad
erogare "i benefici di qualche legge e qualche tutela in piu'... nelle
regole dei pubblici poteri".
Stando cosi' le cose e' impossibile produrre differenza e autorevolezza
femminili, impensabile "produrre voce".
A conclusione dell'articolo "Condizione donna", pubblicato sul n. 6 de "Il foglio del paese delle donne", in cui riporta dati impressionanti circa le violenze subite dalle donne in tutto il mondo, Luciana Parise dice: "La battaglia e' ancora lunga, ce ne vorra' prima che nella coscienza degli uomini si faccia strada l'idea che questa ferocia non e' un diritto maschile ma la violazione di un diritto umano, e che la violenza sulle donne e' universale, ma non e' inevitabile". A parte il fatto che assimilare la ferocia a un diritto e' una contraddizione in termini, se gli uomini considerano la violenza sulle donne un loro diritto e tale convinzione e' universale, non e' legittimo porsi qualche interrogativo circa il percorso evolutivo compiuto dal genere maschile? Se nella conferenza di Pechino e' stato necessario mettere per iscritto che i diritti delle donne sono diritti umani, non vuol dire che gli uomini non sono in grado di riconoscere nelle donne delle umane? La cosa non dovrebbe suscitare qualche perplessita' dato che gli uomini sono senza alcun dubbio ed eccezione figli delle donne? Comunque la mettiamo, emarginare, sfruttare, violare, uccidere sono atti criminali, il fatto che nelle comunita' androcratiche siano considerati normali non e' fortemente irrazionale? Certo e' che millenni di patriarcato ci hanno assuefatto all'irrazionalita', ma se l'irrazionalita' e' la norma, volendo considerare norma all'interno delle societa' umane cio' che e' proprio e degno di una specie che si vuole evoluta, a non essere "normali" sono gli uomini.
La disumanita' e la barbarie dilaganti parlano un linguaggio inequivocabile e per fermarle e farsi ascoltare bisogna semplicemente cambiare registro: a fronte del gran blaterare sulla grandezza del male e la solenne bellezza della guerra, bisogna mostrare con fermezza l'intrinseca illogicita' di una mente che si spende per distruggere ed uccidere anziche' per sostenere la vita. Ma per riuscire in questa impresa occorre un altro modello cognitivo che ponga al centro il vivente, percio' non possiamo discutere "dopo" del sistema di pensiero che governa il mondo, ne' e' possibile separare la teoria dalla prassi, come Marx ha insegnato. Una filosofia che non e' in grado di informare i pensieri e le azioni della gente che filosofia e'? D'altronde qualunque scelta, sia in campo politico che nella quotidianita', deve per forza avere alla base una qualche filosofia. Il problema sta solo nella scelta di quelle filosofie capaci di traghettarci al futuro. Ora possediamo formidabili strumenti per elaborarle.