Storia14
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I Sumeri
La Sumeria è una regione della Mesopotamia prospiciente il Golfo Persico, grande come la Lombardia, geograficamente aperta e abitata, diecimila anni fa, da molte popolazioni nomadi. Il clima è caldo e poco piovoso, ma, in compenso, si può contare sull’acqua di due fiumi navigabili, il Tigri e l’Eufrate, che può essere utilizzata sia per trasportare persone e merci, sia a scopo di irrigazione, ovvero per rendere fertili le campagne, a condizione che sia opportunamente canalizzata, il che richiede il lavoro organizzato di molte persone. La Sumeria è povera di materie prime di pregio (non c’è legname da costruzione, né pietre, né marmo, né rame, né oro, né argento, né ferro); vi abbondano invece materie povere, come l’argilla e la canna. In questa terra, intorno a 5.500 anni fa, calano alcune tribù asiatiche, che riescono ad insediarvisi stabilmente, talvolta imponendosi con la forza, talaltra integrandosi con le popolazioni locali. Sono i sumeri. L’assenza di barriere naturali comporta da un lato uno straordinario sviluppo di attività commerciali, dall’altro un altrettanto straordinario rischio di aggressioni e di guerre, che induce i clan ad unirsi sotto un solo dio e ad organizzarsi fino a costituire grandi e potenti agglomerati di tribù e fondare grandi e potenti città. Nel modo di affrontare le sfide poste loro dal territorio e dalla crescita demografica, i sumeri ricordano, sotto certi aspetti, gli egizi (passaggio dal nomadismo alla vita sedentaria urbana, organizzazione sociale di tipo gerarchico, apparato burocratico, invenzione della scrittura, e così via), ma, sotto molti altri aspetti, essi esibiscono un comportamento proprio (diversa concezione della regalità, maggiore apertura con popolazioni straniere, maggiori scambi culturali e commerciali, indisponibilità delle città a sottomettersi ad un potere centrale, maggiore spazio alla iniziativa individuale, maggiore fiducia nell’uomo, ecc.). Ora, volendo prescegliere un elemento particolarmente connotativo della civiltà sumera, potremmo individuarlo proprio nella fiducia nei mezzi umani. “La vera e fondamentale differenza fra la struttura economico-amministrativa egiziana e quella mesopotamica è che qui le varie attività sono dovute all’iniziativa e all’estro individuale più di quanto non accadesse nel paese dei faraoni, dove tutto era minutamente regolato e prescritto dall’alto” (Camera, Fabietti 1983: 71). In effetti, come si può dedurre da certi passi della loro letteratura, i sumeri si svincolano “relativamente presto dalla tutela degli dèi, tentando di venire a capo da soli della vita terrena” (Uhlig 1981: 153). Va ricordato, tuttavia, che questo processo di emancipazione dalla religione è da intendersi solo in senso parziale. Anche i sumeri, infatti, rimangono, come avremo modo di vedere, ampiamente condizionati dall’elemento religioso. La cosa più sorprendente è che in molte delle loro intraprese i sumeri sono degli iniziatori assoluti. Essi sono “i primi a inventare la città, i primi a inventare la scrittura, i primi a inventare la scuola, i primi a introdurre l’istituto regale, e così via” (Pettinato 1994a: 385-6) e, nonostante non conoscano né il cavallo, né il cammello, la sola bestia da soma su cui possono contare essendo l’asino, possono essere indicati come i “veri promotori della civiltà umana in assoluto, la stessa civiltà che è anche la nostra, sicché è lecito considerarli, almeno in parte, nostri antenati e precursori” (Pettinato 2003: 9-10).
Dal surplus all’organizzazione dello Stato
Per comprendere i passaggi attraverso cui i sumeri giungono a costituire uno Stato, occorre partire dalla figura del contadino, ovvero dal produttore di surplus. È grazie al lavoro del contadino, infatti, che la terra produce generi alimentari (grano, orzo, olio) in quantità tali da consentire un’economia di accumulo e un mercato. Il surplus della terra può essere scambiato con materie prime, che a loro volta possono alimentare fiorenti industrie di trasformazione, che generano nuova ricchezza e innescano nuovi meccanismi di divisione del lavoro e di organizzazione sociale. Costretto a vivere incollato alla propria terra e lontano dalla città e dal villaggio, il contadino si viene a trovare in una situazione paradossale: da un lato, il suo lavoro è fondamentale e irrinunciabile per la sussistenza della comunità; dall’altro, esso è il più esposto ai pericoli, il più vulnerabile, il più precario, e non solo per il rischio che viene dalle intemperie, dalle inondazioni, dalla siccità, dal vento, dal fuoco, dai parassiti e dalle malattie, ma anche per l’esistenza di un altro rischio, ancora più frequente e drammatico: quello di essere depredati. I prodotti della campagna, infatti, suscitano la bramosia di popolazioni vicine che, avendone l’occasione, tentano di impadronirsene, attraverso di azioni di furto, rapina o razzia, che possono essere compiute da persone isolate oppure da gruppi organizzati. Qui ci interessano di più i secondi, che chiamerò «predoni». Generalmente i predoni sono clan di pastori senza particolari legami territoriali, i quali, spostandosi da un luogo all’altro con le loro greggi e le loro famiglie, si appropriano di qualunque cosa indifesa trovino nel loro cammino e, se scoperti con le mani nel sacco, non esitano ad uccidere. Per un clan di contadini, la visita di predoni costituisce una delle peggiori evenienze immaginabili, perché mette in pericolo non solo i loro averi ma anche le loro vite. In teoria, il contadino dovrebbe poter contare sulla protezione del sacerdote-re, che dispone di guardie in grado di sorvegliare il territorio e dare la caccia alla criminalità organizzata, ma anche di magazzini spesso stracolmi di surplus che potrebbe essere redistribuito alle famiglie depredate. In pratica però, questi servizi o non esistono o si rivelano insufficienti e, a conti fatti, per il contadino è più conveniente fronteggiare le avversità con i propri mezzi, adoperando cioè le proprie braccia e quelle dei propri figli. Ciò tuttavia non solo non gli garantisce rilevanti probabilità di successo, ma nemmeno lo esime dal dovere di versare una consistente parte del raccolto al sacerdote-re, né più né meno di come avviene nell’Egitto coevo. La riscossione delle imposte è inflessibile ed è vista dal contadino come una vera e propria calamità. “Il contadino temeva soprattutto due disgrazie: le cavallette e lo «scriba delle tasse»! I risultati erano identici: una parte del raccolto spariva, con la differenza che lo scriba era accompagnato da guardie armate di bastoni, che avevano il compito di convincere il contribuente recalcitrante a versare le sue tasse tirando fuori il grano che aveva nascosto!” (Chierici 1980: 32). Questa situazione appare subito insostenibile, sia per i contadini, che spesso risultano soccombenti e ci rimettono la vita, sia per il sacerdote-re, che non può certo pretendere di riscuotere le tasse dai morti. Non è difficile comprendere che da questa palude si può uscire solo a condizione di dotare il sacerdote-re della forza necessaria per debellare la piaga dei predoni e garantire la sicurezza nelle campagne. Così, i consigli degli anziani delle varie tribù si accordano sulla necessità di conferire al sacerdote-re la facoltà di arruolare un certo numero di contadini, nei periodi in cui c’è poco lavoro nelle campagne, per dare la caccia ai predoni. Alla fine, sperimentato che, così facendo, ci guadagnano tutti (i contadini in sicurezza, il sacerdote-re in potere), si stabilisce di rendere stabile quella consuetudine e ciò è, credo, all’origine della monarchia. Da qui in avanti, infatti, il sacerdote-re diventa re-sacerdote, o semplicemente «re», e assume i poteri sovrani pressoché in tutti i settori sociali. In particolare, il re ha il compito di arruolare eserciti stagionali e tenere lontani i predoni, ma anche il compito di amministrare la giustizia e lo Stato, e tutto ciò in aggiunta alle tradizionali funzioni religiose che in precedenza erano riservate al sacerdote. Ora, grazie all’incremento delle entrate tributarie che consegue alla relativa sicurezza nelle campagne, il re può costruire palazzi, creare apparati amministrativi e fondare città. Nascono così le città-stato e le guerre. A differenza di quello egizio, il re mesopotamico non è un dio e nemmeno un semplice uomo. Egli è piuttosto “il rappresentante della divinità presso gli uomini e il rappresentante degli uomini presso la divinità, l’intermediario fra il mondo divino e il mondo umano” (Aymard, Auboyer 1955: 110). Il re, potremmo dire, è un «semplice» servitore della divinità, che lo presceglie allo scopo di portare a compimento un proprio piano, che di solito consiste nell’assicurare un futuro glorioso alla dinastia e alla città. In pratica, egli è tenuto non solo a cogliere e a osservare la volontà divina, ma anche a dimostrare di essere all’altezza del compito, e il miglior banco di prova non può essere altro che il campo di battaglia. Da ciò deriva la diffusione delle pratiche divinatorie, che si avvalgono dell’osservazione e dell’interpretazione di ogni segno possibile. La volontà divina può essere colta attraverso i sogni, gli oracoli, il movimento degli astri, dei venti e delle acque, il volo degli uccelli, e molti altri segni, che i sacerdoti non cessano di osservare. Se qualcosa va storto, la responsabilità è del re, che non ha saputo ubbidire, del sacerdote, che non ha saputo cogliere i segni, e dello stesso dio, che si è lasciato sovrastare da un altro dio. L’inevitabile conseguenza è l’eclissi della città e di tutti i suoi protagonisti, dio compreso. La legittimazione del re mesopotamico perciò non è scontata, ma dev’essere continuamente confermata con azioni di forza convincenti: solo chi esce vittorioso dalle guerre è amato dagli dèi e merita di essere chiamato re. È opinione diffusa, infatti, che il dio promette e concede la vittoria a suo favorito. “Perciò le descrizioni delle campagne militari assumono la forma di rendiconti resi alla divinità da cui il re si ritiene protetto” (Aymard, Auboyer 1955: 110). I sovrani più abili e fortunati, specie quelli che riescono a conquistare il potere venendo dal nulla, sentono più forte l’esigenza di dimostrare di essere veramente i migliori e tendono ad impegnarsi in imprese memorabili, come quella di costruire un grandioso monumento funerario o un sontuoso tempio, o emanare un codice legislativo (possibilmente inciso su un supporto perenne, a futura memoria), o incoraggiare la celebrazione delle proprie gesta, per esempio, favorendo la creazione di leggende sulle proprie origini divine o circondandosi di artisti, che generalmente realizzano opere più fascinose che utili, il cui scopo principale è quello di stupire e di mostrare a tutti la magnificenza del committente. Al contrario dei faraoni, che non coltivano sogni imperialistici, se non entro limiti assai modesti, i re mesopotamici manifestano spesso mire espansionistiche e cullano idee di dominio universale, come stanno a testimoniare i titoli che alcuni di essi si attribuiscono: «Re delle quattro regioni», «Re di tutto», «Re dell’universo». Ad onta di questa grandiosa aspirazione imperialistica, i mesopotamici si rivelano incapaci di creare imperi stabili, perché alla fine prevale il radicato individualismo delle città. “Ai conquistatori mesopotamici riesce difficile raggruppare sotto il proprio dominio perfino le città più vicine, quelle che, per il tipo di civiltà, considerano come la base del loro dominio: che dire delle città e delle tribù straniere? Già presente nelle prime manifestazioni di questo popolo, il particolarismo rimane una forza indomabile. È a causa delle guerre e delle rivolte incessanti, che si esauriscono le energie dei popoli mesopotamici. L’indebolimento renderà più facile la vittoria ai futuri conquistatori, il Persiano Ciro e il Macedone Alessandro” (Aymard, Auboyer 1955: 106-7). Nella città-stato il grado di complessità sociale è tale da far avvertite anche l’esigenza di disporre di un sistema di scrittura, che consente al re e al sacerdote di ordinare periodici censimenti dei sudditi e di tenere un registro di contabilità dei tributi versati e da versare. A questa delicata mansione provvedono gli scribi, la cui funzione è da paragonare ad un ministro dell’economia: sono loro che presiedono al bilancio della città. La loro responsabilità è grande e senza il loro prezioso apporto un re non potrebbe impegnarsi in una proficua azione di governo. Ecco come si giunge, per passaggi graduali e progressivi, alla costituzione dello Stato politico, dalla tipica struttura piramidale, al cui apice osserviamo la figura del re e alla cui base c’è la massa dei contadini e degli schiavi, mentre nel mezzo troviamo i funzionari e gli ufficiali dell’esercito dallo stesso re nominati. Il re esercita un potere sovrano, militare, economico e giuridico, ed è, di fatto, un monarca assoluto, che è tenuto a rendere conto solo agli dèi. In effetti, nessun sovrano può fare a meno dei favori divini, che, almeno in parte, passano attraverso la figura sacerdotale ed i suoi specifici uffici. Infatti, per quanto il re voglia proclamarsi rappresentante del dio, il sacerdote può, in talune occasioni, rivelarsi il suo più temibile competitore, colui che può screditarlo agli occhi della gente e creare le condizioni per decretare un avvicendamento sul trono.
La guerra
Più una città è ricca, più essa diventa oggetto di desiderio e bramosia per molti. Nasce allora una nuova esigenza, quella di difendere le proprie persone e i propri beni dai nemici. A tale scopo il re è chiamato ad approntare sistemi di difesa efficienti e polivalenti, che vanno dalla costruzione di fortificazioni all’allestimento di un esercito, dalla costituzione di crescenti riserve idrico-alimentari alla ricerca di alleanze e di matrimoni combinati, dalla scelta di collaboratori fidati all’istituzione di un sistema di pattugliamento del territorio. Un re deve occuparsi di tutto ciò e deve farlo bene se vuole conservare il trono. Ma le sue qualità non bastano: senza un briciolo di fortuna anche il re più capace può finire in rovina. È sufficiente un’epidemia, un temporale, un terremoto o un qualsiasi altro evento imponderabile per mandare all’aria il sistema difensivo e cadere vittima di un nemico più fortunato. Di norma, il re sconfitto viene ucciso oppure lasciato al suo posto come vassallo, con l’obbligo di versare al vincitore un tributo e fornirgli un sostegno militare in caso di necessità, mentre la popolazione sconfitta può essere sterminata o deportata o schiavizzata. Un re saggio perciò non tralascerà di cattivarsi i favori della divinità e lo potrà fare in molti modi, per esempio, offrendo sacrifici, elargendo doni ai templi, chiedendo il parere di speciali personaggi, che si ritiene capaci di interpretare i più sottili segni della volontà divina, i cosiddetti divinatori, e, soprattutto, interpellando i sacerdoti e avvalendosi del loro ufficio e del loro appoggio. Con la necessaria fortuna o, se si preferisce, con il fondamentale aiuto degli dèi, un re può tenere a bada i suoi nemici per un tempo indefinito e realizzare condizioni di sicurezza tali da consentire un progressivo aumento della ricchezza prodotta, cui si accompagna un incremento demografico e una sensazione di superiorità tale da indurre lo stesso re ad intraprendere politiche espansionistiche. Si diffondono così le guerre e, da questo momento, le città devono guardarsi l’una dall’altra, mentre l’attività dei sovrani è quasi del tutto assorbita nella funzione militare e in quella diplomatica: lo scopo ultimo è quello di apparire tanto forte da essere temuto e tanto inserito in una rete di alleanze da risultare pressoché invincibile. Nei primi mille anni, fra le città prevalgono condizioni di relativa pace e non si avverte la necessità di costituire eserciti permanenti, ma, intorno a 4500 anni fa, la competizione fra i sovrani si fa più accesa e la pratica delle guerre diviene un atto ordinario. Ciò fa aumentare il prestigio del re, così che il palazzo comincia a “rivaleggiare col tempio cittadino per ricchezza e influenza” (Oates 1984: 38). Da questo momento, la difesa del regno costituisce il compito primario di ogni sovrano e la stessa ragion d’essere della monarchia. Così, mentre le città si cingono di mura e diventano fortezze, i sovrani attuano politiche di arruolamento militare e di sostegno all’industria bellica, che si avvalgono di un’energica azione di propaganda di regime. Il servizio militare viene decantato come un primario dovere del cittadino, che è chiamato a combattere in difesa della propria famiglia e della propria patria, sicuro dei favori del proprio dio e contro nemici dai caratteri subumani. Alla fine, la guerra diviene un affare o, comunque, un modo di guadagnarsi da vivere. Il dovere militare è, infatti, ricompensato dallo Stato con l’assegnazione di un pezzo di terra, che può essere data in affitto o trasmessa in eredità ai figli. È così che nasce la proprietà privata, della terra e delle persone, che non è del singolo, ma della famiglia, a dimostrazione della prevalenza di una logica di gruppo su una di tipo individualistico, che ancora non è concepita. Nel complesso, il soldato si considera un privilegiato perché ha non solo di che sfamarsi, ma anche la prospettiva di divenire un agiato possidente, e ciò spiega la sua fedeltà allo Stato e la pressoché totale assenza di rivolte e ammutinamenti. Insieme alla guerra esplode anche il fenomeno della schiavitù. Lo schiavo viene considerato come un animale e, come tale, è valutato e trattato. Ai tempi di Hammurabi il suo valore commerciale è all’incirca quello di un asino. Lo schiavo può essere venduto, scambiato, dato in pegno o in deposito, e via dicendo, ma non è del tutto privo di diritti. Egli, infatti, può riscattare la sua libertà pagando una certa somma al suo padrone, svolgere attività commerciali e anche sposarsi con una persona libera (in questo caso i figli nascono liberi).
L’economia
L'economia della Sumeria è in larga misura fondata su agricoltura e pastorizia. Tuttavia, benché praticata da una parte esigua della popolazione, anche il commercio occupa uno spazio importante, per tutta una serie di ragioni: perché la Sumeria è priva di materie prime di pregio (pietre, legname, avorio, oro, argento), perché queste materie appaiono indispensabili per le ambizioni e le politiche dei clan dominanti, perché risulta impossibile procurarsele solo con azioni di rapina. Per tutta una serie di ragioni, su cui non mi soffermo, uno stato di guerra continuo è alla lunga insostenibile, ed è per questo che, immancabilmente, ad ogni guerra segue un periodo di pace, del quale i sovrani approfittano per tessere le loro trame (da cui prenderanno origine altre guerre), ma anche avviare iniziative atte a favorire i commerci e gli scambi culturali fra popoli diversi e lontani. Considerata "l'assoluta mancanza di materie prime nel suolo mesopotamico" (Pomponio 2006: 551), il procacciamento di materie prime diventa una necessità, quasi come l'approvvigionamento idrico. Lo scopo dello scambio è, essenzialmente, quello di procurarsi le materie prime di cui si è carenti (e che possono utilmente essere impiegate per incrementare la ricchezza prodotta, per esempio, fabbricando strumenti di lavoro sempre più efficienti o costruendo nuove e più temibili armi), oppure di importare cultura e tecnologia, o, infine, di acquistare dei manufatti finiti e raffinati, al solo scopo di impreziosire le dimore dei ricchi signori e le loro persone. Le merci vengono trasportate a dorso d’asino o con barche lungo i fiumi, più raramente con carri trainati da buoi. Il cammello, invece, pur addomesticato III kyr fa, non è ancora adoperato per questo uso. Il valore di ogni merce è riferita ad un certo peso di orzo, grano, rame o argento. Si ignora l’uso della moneta e manca una vera a propria rete viaria. I mercanti devono affrontare viaggi lunghi e pericolosi. Di norma, essi sono ripagati da lauti guadagni, ma la loro attività è fatta oggetto di discredito: “il viaggiatore da paesi lontani è un perenne bugiardo!” (da Chierici 1980: 154). I sumeri conoscono bene oro, argento, rame, stagno e piombo, come anche la ceramica, la pietra e il legno, e dispongono di un artigianato alquanto sviluppato, ma le materie prime scarseggiano e devono perciò essere importate per essere lavorate e utilizzate. Il ferro è noto, ma non è ancora usato, perché non si dispone ancora della tecnologia adeguata.
La città
Nel periodo di massimo splendore, la Sumeria ospita 25-30 città-stato, fra cui ricordiamo Uruk, Ur, Kish, Lagash, Nippur, Adab, Larsa, Sippur e Umma, ciascuna delle quali occupa un’area di circa 3-6 Kmq e controlla un territorio di circa mille Kmq. Ogni città riconosce un dio come «sovrano effettivo» e un sacerdote come suo rappresentante umano. Il cuore della città è il tempio, detto Ziqqurat, dalla caratteristica forma architettonica a piramide tronca a gradini1, il quale ospita il dio tutelare della città stessa. Le caratteristiche architettoniche della ziqqurat rispondono perfettamente alla concezione antropomorfa che i sumeri hanno della sfera divina e rispecchiano l’idea che anche gli dèi hanno bisogno di una casa adeguata al loro rango. L’imponenza della ziqqurat soddisfa, dunque, l’esigenza di rendere il dovuto omaggio alla divinità ed esprime la potenza di chi vi risiede: più è potente il dio, più è fortunata la città che da lui dipende. In seconda istanza il tempio è anche la casa del sacerdote e il luogo ove questi presiede al culto. Il tempio costituisce inoltre un ottimo punto di osservazione del movimento delle acque, il che rende possibile il miglioramento del sistema di canalizzazione, col duplice vantaggio di sfruttare il prezioso liquido senza lasciarsene travolgere. Dall’alto del tempio non si osservano solo le acque, ma anche il cielo, gli astri, il volo degli uccelli, il soffiare dei venti e altri fenomeni, che vengono utilizzati anche come presagi o come indizi per la divinazione, e si può anche osservare e controllare l’andirivieni dei lavoratori della terra e degli addetti ai canali. Il tempio è infine un importante centro economico, dal momento che ad esso sono annessi vasti terreni, che il sacerdote fa coltivare e il cui prodotto gestisce. A differenza dell’Egitto, dove prevale la cultura dell’unità nazionale, nella Sumeria “il particolarismo rimane una forza indomabile” (Aymard, Auboyer 1955: 106). In effetti, le città-stato sumeriche non intendono rinunciare facilmente alla loro autonomia e oppongono resistenza ai ripetuti tentativi di creare un grande impero. Ciò non toglie che, di tanto in tanto, un signore riesca ad estendere la sua autorità sulle altre città meritandosi il titolo di «Re di Sumer» o altri appellativi altisonanti, con i quali verrà ricordato nelle iscrizioni e nei documenti ufficiali. Tuttavia, anche quando entrerà a far parte di vasti imperi, la città-stato continuerà a rappresentare un’entità politica autonoma e a manifestare una caparbia avversione verso la centralizzazione politica. Nella città trovano spazio gli spiriti più liberi e creativi in ogni campo della tecnica e dello scibile. Così qualche vasaio comincia a specializzarsi nella fabbricazione di vasi di pregevole fattura e dalle forme originali, che impreziosisce con colorazioni, decorazioni e disegni; e lo stesso vale per il fabbro, il conciatore, il falegname, il tessitore e l’ingegnere, che si cimentano in opere sensazionali. In questa temperie culturale nascono nuove figure di lavoratori, come quella del paggio, dell’eunuco, del danzatore, del cantante, del musicista, dello stalliere, della sacerdotessa, della prostituta di rango, del divinatore, del vate, del glittico, dell’orafo, e via dicendo, che hanno in comune il fatto di essere impegnati in attività sempre più specializzate e sempre più lontane dalla mera sussistenza. Nello stesso tempo, lo scriba tende sempre di più a non svolgere funzioni eminentemente amministrative e diventa un intellettuale e letterato a tutti gli effetti. Le prime composizioni letterarie hanno prevalentemente contenuto religioso e forma poetica. “I testi non poetici sono i cosiddetti «codici di leggi», le lettere e le iscrizioni reali” (Mander 2007: 121).
I nomadi
Da questo mondo, che è il mondo della città e della campagna circostante, si distinguono le popolazioni nomadi, che vivono in luoghi poco ospitali e non hanno fissa dimora. Su di loro il re non ha alcun potere, perché è molto difficile per un esercito avere ragione di un nemico capace di dileguarsi nel nulla nello spazio di poche ore, magari per ricomparire altrettanto rapidamente quando meno te lo aspetti. E poi, che senso avrebbe accanirsi contro gente, che non possiede nulla all’infuori dei loro armenti e la cui stessa vita è considerata priva di valore? I nomadi sono liberi, imprevedibili e inafferrabili, ma, quando la siccità impoverisce i pascoli, essi non esitano a saccheggiare le campagne e diventano pericolosi per le persone che vi risiedono. I nomadi affamati sono un’autentica spina nel fianco di ogni regno, una vera e propria calamità naturale da tenere lontana il più possibile e con ogni mezzo possibile. In particolari momenti, tuttavia, avverrà, come vedremo, che un certo numero di tribù nomadi, unite sotto un capo comune, riescano a conquistare città e a rovesciare regni e imperi.
Le prime monarchie
Tra il IV e il III millennio, col diffondersi delle guerre, compaiono le prime figure di grandi condottieri e i primi palazzi, si affermano le prime monarchie e le prime dinastie (Mander 2007: 13). Nello stesso tempo, si vanno diffondendo varie forme di ingiustizie sociali: privilegi per i più forti, vessazioni per i più deboli. Particolarmente deplorevole appare agli occhi della gente l’oppressione nei confronti di orfani e vedove, a favore dei quali si pronuncia qualche sovrano desideroso di cattivarsi le simpatie del popolo, come Urukagina, re di Lagash (2385-70), il quale si distingue come riformatore sociale. Il primo grande monarca della Sumeria è Lugalzagesi, re di Uruk, il quale, intorno al 2375, riesce ad unificare politicamente la regione del Tigri e dell’Eufrate2. In questo periodo, i sumeri concepiscono il mondo come diviso in quattro parti: Nord, Sud, Est, Ovest (a nord e sud c’è il mare, a est l’Elam, a ovest la Siria-Palestina). Naturalmente al centro del mondo c’è la Mesopotamia, la terra fra i due fiumi, e al centro della Mesopotamia c’è Uruk, una sorta di ombelico del mondo, da cui si dipartono i potenti clan guerrieri, che conquistano terre e fondano altri centri urbani sulla falsariga della città madre. Inizialmente sottomessi a Uruk, col tempo questi centri diverranno abbastanza potenti da competere con essa e ingaggiare guerre per ottenere prima l’indipendenza e poi la supremazia. Non appena l’impero creato da Lugalzagesi mostra i primi evidenti segni di debolezza, ecco che sorge qualcuno in grado di approfittarne. È Sargon il Grande (2340-2300), un trovatello di provenienza araba, cresciuto alla corte della città di Kish, il quale fonderà la dinastia degli Accadi e si farà chiamare «re di tutto» (Pettinato 1994a: 263). In un’antica iscrizione si legge: “Io sono Sargon, re forte, re di Akkad. Mia madre era una sacerdotessa; mio padre non lo conosco; era uno di quelli che abitano le montagne”. Ciò conferma che Sargon non è di sangue reale, ma chi sia realmente nessuno lo sa, e quel poco che si sa è intriso di leggenda. Si dice che sia un figlio illegittimo, che sia stato deposto in un cesto dalla madre e affidato alle acque di un fiume; da dove viene raccolto dal giardiniere del re di Kish e portato nel palazzo, dove viene allevato. Fuor di leggenda, possiamo immaginare Sargon come un piccolo capoclan, che vive in un’epoca di turbolenza politica e sociale, nella quale i grandi signori delle potenti città-stato si fanno guerra fra loro, mentre, a loro volta, sono minacciati da altrettanto potenti popolazioni nomadi, che non solo razziano il territorio, ma costituiscono anche un vero e proprio elemento destabilizzante. Probabilmente, dopo essere entrato al servizio del re di Kish, quel piccolo capoclan riesce a sfruttare la divisione interna della città e il malcontento popolare per mettere a segno un colpo di Stato e assume il nome di Sargon, che significa «re legittimo». Non è per caso che il nuovo re vuole, assumendo quel nome, dare sostanza alla sua legittimità. Una delle principali cause d’instabilità politica è, infatti, il mancato riconoscimento di un sovrano da parte degli altri aspiranti al potere. A maggior ragione, questo principio deve valere per un usurpatore come Sargon. Pertanto, questa preoccupazione di farsi legittimare prova l’acume politico di Sargon e dimostra che egli è consapevole che “la propaganda del vincitore è almeno altrettanto importante che le sue armi” (Canfora 2006: 84). La prima preoccupazione del nuovo re è, dunque, quella di legittimare il suo ruolo e, a tale scopo, egli certamente incoraggia le leggende che vanno circolando sul proprio conto, le quali, in fondo, dimostrano la sua discendenza divina e il suo diritto a regnare e a fondare una nuova dinastia. Ma Sargon è innanzitutto un uomo d’azione e sa che nessuna legittimazione potrebbe conferire stabilità al suo potere se non fosse accompagnata dalla forza militare. Egli si impegna, dunque, in azioni di conquista e, grazie alle sue eccellenti qualità di condottiero e di opportunista, riesce a creare un impero ancora più grande di quello di Lugalzagesi, la cui capitale, la città di Akkad, è fatta costruire ex novo dallo stesso sovrano (2340). I vincitori imparano dai vinti l’arte della scrittura, ma la adattano al loro idioma, creando così una lingua nuova, l’accadico, che avrà fortuna e riuscirà a sopravvivere per quasi duemila anni. I successori di Sargon si sentono così sicuri della propria legittimazione da indurre Naramsin (2274-34), nipote di Sargon e conquistatore di Ebla, primo re della storia a farsi divinizzare mentre è in vita, assumendo il titolo di «dio di Akkad” (Nissen 1990: 188). Gli sforzi dei sovrani in questo periodo sono protesi verso molteplici obiettivi: all'esterno, espansione territoriale e commerciale, all'interno spegnere i ricorrenti focolai di rivolta e unificare "sistemi di peso e misure, calendario, criteri di gestione del personale dipendente, gerarchie e tipologia di funzionari introdotti dall'amministrazione accadica" (Milano 2006: 700). Il fine ultimo è quello di creare un sistema sociale il più possibile omogeneo e facilmente controllabile dal sovrano. Ma tutto ciò non basta ad assicurare lunga vita alla dinastia. Dopo Naramsin, infatti, ha inizio una fase di declino, che in buona parte è legata alle spinte indipendentistiche dei signori locali e all’ascesa di nuovi aspiranti al potere, che indeboliscono l’impero e danno modo all’orda dei rozzi montanari Gutei di farsi avanti e abbattere la dinastia di Akkad (2200). Dovranno trascorrere una cinquantina d’anni prima che essi vengano sterminati dal re di Uruk, Utukhengal, che avrebbe ricevuto tale ordine dal dio Enlil. Della cacciata dei gutei si avvantaggia Urnammu (2112-2095), fondatore della III dinastia di Ur, che riesce ad imporre la sua egemonia sulla Mesopotamia meridionale, dando inizio ad una breve rinascita di Sumer. L’opera espansionistica di Urnammu viene proseguita dal figlio Shulgi (2094-2047), il quale, come già Sargon e Naramsin, comprende che non è sufficiente affidarsi alle armi, e nemmeno basta divinizzare la propria persona: occorre anche intraprendere la via del diritto. Se le popolazioni a me sottomesse, pensa, sanno che possono contare su una legge scritta uguale per tutti, certamente preferiranno vivere sotto quella legge, piuttosto che muoversi continuamente guerra fra loro, col rischio della vita oggi e senza certezze per il domani. Shulgi non si limita a emanare il primo codice di leggi che si conosca, ma crea anche un esercito regolare, organizza un enorme e ordinato apparato burocratico e fiscale e unifica il sistema amministrativo in tutto il suo impero, che fa suddividere in province, ciascuna delle quali affida ad un governatore e fa presidiare da un corpo militare. Più di così proprio non può fare, ma Sumer non è come l’Egitto: qui la pace interna non basta a rendere duraturo un sistema politico, perché le spinte indipendentiste sono indomabili e i nemici esterni sono forti e determinati. E infatti, i figli e successori di Shulgi, Amarsin (2046-2038) e Shusin (2037-2029), che pure vorrebbero espandersi, devono badare soprattutto a difendersi dalla penetrazione degli amorrei e dalla minaccia degli elamiti e l’ultimo re di Ur, Ibbisin (2028-2004), nonostante faccia di tutto per evitare il disastro, nulla può contro il dilagare di queste orde fameliche, che finiscono per travolgerlo. Così, l’impero sumero si frantuma in molti Stati epigoni (Isin, Larsa, Eshnunna, Assiria, Babilonia, Mari, Aleppo, e altri ancora), che verranno unificati da Hammurabi oltre due secoli dopo. Ma intanto si aprono due secoli di divisione, di lotta e di caos politico. Con Ibbisin si conclude la storia della civiltà sumerica, che sarà presto dimenticata. Saranno gli scavi archeologici, effettuati nel XX secolo, tra la prima e la seconda guerra mondiale, a riportarla alla memoria.
Il Diritto sumero
A fronte di un sempre più frequente ricorso alla guerra, in realtà i sumeri sono fondamentalmente pacifici e amano la vita. “Nella loro letteratura si parla poco di guerre e di battaglie e i loro re si vantano più volentieri delle opere civili e religiose che hanno costruito che non delle imprese militari” (Chierici 1980: 43). In effetti, i sumeri sono i primi a concepire un diritto civile formalmente codificato. Ma che cos’è il diritto? È giunto il momento di interrogarci sulle origini del diritto e sulle sue funzioni. “Sostanzialmente il diritto consiste in un insieme particolarmente definito di norme sociali che sono mantenute in vigore attraverso la applicazione di sanzioni «legali»” (Hoebel 1973: 26). In concreto, il diritto è caratterizzato dalla presenza contemporanea e inscindibile di due elementi: leggi scritte e la forza necessaria per farle rispettare. Ora, nel momento in cui stabilisce gli obblighi sociali dei sudditi e le sanzioni per i trasgressori, il diritto scritto esce dalla sfera dell’arbitrio personale e diviene un segno di civiltà. Il diritto si afferma perché svolge funzioni atte a garantire una vita sociale ordinata senza la necessità di dover ricorrere all’uso della forza ogni qualvolta ci si venga a trovare in una situazione di conflitto. “Il compito fondamentale del diritto è quello di definire innanzitutto le relazioni personali […]. Esso stabilisce le aspettative di un individuo nei confronti di un altro individuo, di un gruppo nei confronti di un altro gruppo, cosicché ognuno conosce il nucleo e le limitazioni dei propri diritti nei riguardi degli altri, dei propri doveri, delle proprie facoltà e poteri” (Hoebel 1973: 389-90). Sotto questo aspetto, il diritto svolge la stessa funzione delle lotte territoriali presso gli animali, ovvero stabilisce l’ordine di accesso alle risorse, senza che si debba venire ogni volta alle mani. Una volta stabiliti i rapporti di forza, gli animali si comportano in modo ordinato e rispettano le gerarchie, e così fanno gli uomini grazie al diritto. Il primo esempio a noi noto di diritto civile propriamente detto è quello che si realizza sotto il regno di Shulgi. Prima esisteva una forma di diritto non scritto, che corrispondeva, in ultima analisi, alla volontà del clan dominante.
L’invenzione della scrittura
Cinquemila anni fa, il centro nevralgico della città è il tempio ed è nel tempio che lavorano le persone preposte a gestire le derrate alimentari ammassate nei magazzini e a soddisfare tutte quelle esigenze pratiche che spingeranno l’uomo a inventare la scrittura, come marchiare un recipiente, sigillarlo, catalogarlo, segnare e conservare un atto di compra-vendita, un prestito, o qualsiasi altro atto pubblico o privato, accompagnare i prodotti di scambio con alcune indicazioni essenziali, e via dicendo. È probabilmente nel tempio di Uruk che, intorno a 5000 anni fa, viene inventata quella scrittura, che oggi viene chiamata cuneiforme3, la quale resisterà fino alla caduta di Ninive (612 a.C.), allorquando verrà sostituito dalla prima lingua alfabetica, la lingua aramaica (Pettinato 1994a: 53). Attraverso la scrittura, i sacerdoti e i funzionari non solo amministrano il surplus della comunità cittadina, ma possono anche segnare i nomi delle cose. A poco a poco, il «nome» diviene così importante da costituire, nell’immaginario sumerico, la stessa essenza della cosa. I sumeri credono che ogni cosa, per esistere, debba avere un nome e che la conoscenza e l’uso di quel nome equivalga ad esercitare un qualche potere sulle cose stesse, ed ecco perché i più antichi documenti sumerici, di natura non contabile, sono elenchi di nomi.
Il Mito
All’interno dei templi gli scribi compongono i primi racconti, che pur riferendosi ad eventi realmente accaduti, sono espressi in modo piuttosto libero e fantasioso, dando corpo ad un genere letterario che un giorno i greci chiameranno «mito». Composto di «parole», già di per sé considerate magiche, anche il mito è accreditato di poteri straordinari. Di fatto, esso svolge una funzione simile a quella svolta da una dottrina religiosa, ma, mentre questa è vista come affare esclusivo del sacerdote o di pochi privilegiati, il mito appartiene a tutti, è di dominio pubblico. Il racconto mitico non nasce in un giorno, né viene a costituirsi nel sogno o per illuminazione, come i messaggi divini, ma prende forma nell’immaginario collettivo a partire da esperienze comuni o da eventi di vasta risonanza pubblica realmente accaduti e ritenuti tanto rilevanti da meritare di essere ricordati, spiegati e trasmessi di generazione in generazione, come la fondazione di una città, un’alleanza, una guerra, una lunga carestia o una grave epidemia. Col trascorrere del tempo, il racconto di questi eventi, che avviene in forma prevalentemente orale, va arricchendosi di libere interpretazioni e finisce col perdere ogni verosimiglianza con gli eventi che lo hanno generato. La maggioranza dei miti conservano un’importanza locale e vengono dimenticati, ma alcuni di essi vengono messi in forma scritta, all’interno di un palazzo o di tempio, e diventano parte integrante di una nazione. Il mito viene da lontano e si perde nella notte dei tempi, non ha un autore umano ben definito e viene considerato come esistente da sempre, ossia come una verità di fede, assoluta e indiscutibile. Periodicamente riproposto in occasione della celebrazione di certi riti, all’interno di un tempio o di un palazzo, o nell’occorrenza di certi eventi sociali di particolare importanza, come il raccolto del grano, la tosatura delle pecore, l’anniversario della fondazione della città o dell’affermazione di una dinastia, il mito svela all’uomo i misteri della vita, l’origine dell’universo e degli animali, degli uomini e degli dèi, delle dinastie e delle città, dei popoli e delle tradizioni, del dolore e della morte.
Il pensiero religioso
La religione fa parte integrante della cultura sumerica e permea tutti i più importanti aspetti della vita delle persone, delle città e dei regni. Non esiste una religione distinta dalla società e dallo Stato e, infatti, non esiste un termine sumerico per «religione». Le riflessioni dei sumeri sulla religione si sviluppano in almeno due distinte fasi: nella prima, la divinità è identificata con gli eventi naturali e i corpi fisici animati e inanimati, come il vento, la pioggia, il fuoco, gli animali, le montagne, i fiumi, le nuvole, gli astri e molto altro ancora; nella seconda, che corrisponde all’età storica, le divinità acquistano un aspetto personale e antropomorfo. In entrambi i casi, i sumeri concepiscono anche tutta una serie di esseri che stanno a metà strada tra il divino e l’umano, eroi divinizzati, superuomini, semidei, mostri, demoni o angeli. Nel pantheon sumerico c’è posto per un indefinito numero di divinità (si conoscono circa 500 divinità sumeriche!), anche se tre di esse occupano i gradini più alti, e sono, in ordine di importanza: An, il quale esercita una sorta di autorità morale, Enlil, che è il sovrano effettivo, ed Enki, che è una sorta di primo ministro (Bottéro, Kramer 1992: 53-5). Ma come sono concepite esattamente queste divinità? Innanzitutto, esse hanno un inizio, perciò non sono eterne, inoltre provano gli stessi sentimenti umani, hanno desideri e passioni, ricorrono all’inganno, mangiano e bevono, si accoppiano e hanno figli. La loro vita è segnata da successi e insuccessi, come avviene per gli uomini, con l’unica differenza che gli dèi sono immortali. Oltre ad preghiere e sacrifici a queste divinità, ogni sumero ama indossare amuleti contro le malattie, recitare formule ed eseguire atti di scongiuro, il tutto allo scopo di tenere lontane le potenze del male, di cui crede che l’universo sia popolato. Nella sua forma più matura, la religione sumera si presenta “come un politeismo gerarchicamente strutturato, espresso marcatamente in forma antropomorfica” (Mander 2009: 23). Gli dèi provano gli stessi sentimenti umani, ricorrono all’inganno, mangiano, bevono, si sposano, si riproducono, hanno progetti, strategie, disavventure, bisogni e sono soggetti a trionfi e rovesci di fortuna, allo stesso modo degli uomini. La ragion d’essere del tempio è che “il dio ha bisogno di una casa per sé e per la sua famiglia” (Aymard, Auboyer 1955: 131). Analogamente, le offerte dei fedeli e il sacrificio degli animali si spiegano perché il dio ha bisogno di nutrimento e di culto. I sumeri riconducono il male che incombe sugli uomini a due principali cause: il mancato rispetto della volontà divina e le azioni di spiriti maligni, di cui è riccamente popolato l’immaginario sumerico. I sumeri credono che tutto ciò che accade dipenda dalla volontà degli dèi, non da quella degli uomini, e perciò ignorano l’idea di peccato e il principio di retribuzione. È molto diffusa presso i sumeri la concezione, secondo la quale gli dèi sono altrettanti monarchi, che, stanchi di provvedere a se stessi col proprio lavoro, un bel giorno decidono di creare gli uomini affinché lavorino per loro e si pongano al loro totale servizio. Il dio-padre è il sovrano della città e vive nel tempio, insieme alla sua consorte, ai suoi figli, ai suoi funzionari, allo stesso modo in cui un re vive nel proprio palazzo, con la propria famiglia e la propria corte. Secondo i sumeri, le vicende umane e la «storia» sono decretate dagli dèi, i quali accordano i loro favori a coloro che ne osservano la volontà. È qui che entra in campo quella “tecnica di comunicazione con la divinità” (Oates 1984: 250), che è la divinazione. Essa era un tempo officiata dallo sciamano, che era un personaggio singolare e unico, adesso è officiata dal divinatore. La divinazione rappresenta, per l’uomo sumero, ciò che la scienza sarà per l’uomo moderno, e coloro che la praticano (che possono essere privati cittadini, anziani, dignitari di corte, funzionari dello Stato) sono tenuti in alta considerazione e vengono regolarmente consultati in ogni occasione importante, sia dal sovrano che dalle persone comuni. E se i presagi fossero funesti? Niente paura: si può sempre ricorrere ad un qualche rito di purificazione e ad altre misure idonee a scongiurare le previsioni. I sumeri credono che la creazione dell’uomo faccia parte di un piano imperscrutabile degli dèi e ritengono che l’uomo possa contribuire a realizzare quel piano attraverso l’obbedienza nei confronti dell’autorità costituita (vale a dire il re, coi suoi rappresentanti) e dei propri genitori. Inoltre, pensano che, lavorando, l’uomo non solo provvede al proprio sostentamento e a quello dei funzionari, ma si assicura anche la benedizione degli dèi. Ritengono, infine, che, dopo la morte, la vita continui, seppure in una forma grigia e di scarso interesse, che potrà essere alleviata dalle offerte funerarie, in mancanza delle quali, i morti stessi potrebbero rendersi minacciosi attraverso i loro spiriti. Ne consegue che, per i sumeri, quello che più conta è la fortuna in questa vita, fortuna che bisogna guadagnarsi attirandosi i favori degli dèi attraverso la buona condotta e le pratiche cultuali. Al di là delle particolari considerazioni dottrinali, la religione serve ai sumeri sostanzialmente per costituire grandi comunità solidali e coese e per creare un’identità nazionale.
La Triade dio-re-città
Secondo i sumeri, solo un dio può fondare una città e, nel momento in cui lo fa, egli ne diviene patrono e s’impegna a difenderla come cosa propria. Il vero sovrano della città è il suo dio tutelare. Il re umano è solo un «affittuario» (Saporetti 2002: 29), un «fattore» (Mander 2007: 13), un "semplice amministratore del patrimonio del dio cittadino" (Pomponio 2006: 564). I monarchi umani sono ben consapevoli che “la loro designazione a re e le loro fortune politiche e militari sono dovute alla benevolenza del dio cittadino, ma soprattutto del dio Enlil, capo indiscusso del Pantheon sumerico” (Pettinato 1994a: 303). Alla fine, la Triade dio-re-città diventa un tutt’uno e condivide lo stesso destino. La cartina di tornasole è la città: nell’immaginario collettivo, una città prospera e vittoriosa indica un re e un dio potenti, mentre una città declinante testimonia la debolezza del suo re e del suo dio. Ebbene, ogni «triade» ha la sua storia: alcune triadi decadono e scompaiono dalla scena politica senza lasciare un duraturo ricordo di sé, altre diventano sempre più potenti fino a realizzare grandi e duraturi imperi e vere e proprie civiltà, la cui memoria verrà tramandata nei secoli.
La cultura generale
Coerentemente coi loro presupposti religiosi, i sumeri sono degli osservatori minuziosi, analitici, scrupolosi, e ciò permette loro di acquisire importanti conoscenze sui fenomeni naturali e in campo astronomico. Mostrano invece gravi lacune sotto il profilo della sintesi, dell’astrazione, della creatività e dell’inventiva. I sumeri non giungono mai a formulare una legge universale, nemmeno in campo matematico! La causa di ciò va ricercata ancora una volta nelle loro credenze religiose. Essi, infatti, concepiscono la scienza come un dono concesso agli uomini da questo o da quel dio e che l’uomo deve semplicemente raccogliere e trasmettere il più fedelmente possibile alle generazioni future, senza pretendere di produrlo con le proprie forze.
“Come avrebbe potuto essere diversamente, se si considera quanto fossero intimi i legami che continuavano a tenerla legata alla religione? La scienza veniva concepita come una rivelazione, come il dono concesso agli uomini da questo o da quel dio. Gli uomini si limitavano perciò a constatare e ad applicare: non avevano bisogno di approfondire. Da questo atteggiamento mentale, inoltre, derivava inevitabilmente una tendenza all’immobilismo. Giacché la conoscenza proviene dagli dèi, è naturale che l’abbiano già accordata alle generazioni precedenti, le più edotte in materia di pietà e di riti. Perciò, il dovere principale della generazione presente è quello di raccoglierla e trasmetterla il più esattamente possibile; sarebbe un’ambizione vana quella di pretendere di accrescerla; come per le credenze e le pratiche religiose, per cui la dottrina costituisce solo un corollario, l’ideale si ricerca nel passato e non nell’avvenire” (Aymard, Auboyer 1955: 143-4).
Il mito di Gilgamesh
Uno dei pochi racconti sumerici che è potuto giungere fino a noi è il celeberrimo poema di Gilgamesh, composto a Uruk intorno a 4500 anni fa (Pettinato 1994a: 144). Chi è Gilgamesh? non si sa di preciso. Forse è un personaggio reale, un re di Uruk, vissuto circa 4600-4700 anni fa (Sandars 1986: 29) e diventato famoso per essersi posto, analogamente al suo collega faraone, l’obiettivo dell’immortalità. Già subito dopo la sua morte, su di lui circolano un certo numero di aneddoti, che vengono prima raccontati in forma orale e in modo frammentario e successivamente raccolti, ordinati e messi in forma scritta in lingua sumerica. L’opera ha successo e si diffonde in tutto il Vicino Oriente. Intorno a 3000 anni fa, essa viene tradotta in lingua assira e viene conservata nella biblioteca del palazzo di Ninive, voluta da Assurbanipal, dove è stata ritrovata a seguito degli scavi archeologici compiuti nel XIX secolo. Ecco una sintesi del racconto.
Gilgamesh è il potente e arrogante re di Uruk. Stanchi del suo strapotere, i sudditi si rivolgono agli dèi perché gli oppongano qualcuno di pari valore. Gli dèi creano allora Enkidu, un uomo di mentalità primitiva e selvaggia, che cresce in compagnia degli animali selvatici. Saputo delle prepotenze del re, Enkidu si reca in città e lo affronta, ma Gilgamesh si mostra valoroso tanto che, alla fine, Enkidu riconosce la legittimità del suo potere e i due diventano amici. Insoddisfatti della loro vita tranquilla, i nostri eroi decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca di gloria. Strada facendo, la dea Istar si innamora di Gilgamesh, ma questo la respinge perché sa che la dea ha trasformato molti suoi amanti in animali. Irritata, Istar si rivolge ad Anu, il dio della volta celeste, chiedendogli di vendicarla. Anu manda contro i nostri eroi il gigantesco Toro del Cielo, ma essi lo uccidono. Invidiosi della loro fortuna, gli dèi decidono la morte di Enkidu, il quale, lamentando la sua fine ingloriosa, lontano dai campi di battaglia, esala l’ultimo respiro fra le braccia dell’amico, che ne piange la perdita. Sentendo incombere anche su di sé la minaccia della morte, Gilgamesh vuole scoprire il segreto dell’immortalità e si mette in viaggio alla volta di Utnapistim, l’unico uomo che sembra l’abbia ricevuta dagli dèi e che vive in un’isola agli estremi confini della terra. Lungo il cammino deve superare una serie di difficoltà, che si frappongono fra lui e Utnapistim: affronta due mostri spaventosi, che fanno la guardia al “Giardino delle Delizie”, resiste ad una locandiera, che cerca di dissuaderlo prospettandogli l’irrealizzabilità dell’impresa, e attraversa l’Oceano. Gilgamesh non si ferma davanti a nessun ostacolo, finché giunge al cospetto di Utnapistim, il quale, dichiaratosi disponibile a svelargli il segreto dell’immortalità, gli racconta come gli dèi abbiano mandato sulla terra il diluvio universale, come egli, aiutato dal dio Ea, abbia costruito un’arca e vi abbia caricato la propria famiglia e tutti gli animali salvandosi, e, infine, come, per grazia degli dèi, gli sia stato concesso di vivere per l’eternità in quella remota isola. Avendo compreso che non c’è alcun segreto da svelare e che l’immortalità è una prerogativa divina, deluso, Gilgamesh si prepara al ritorno, quando Utnapistim, tratto in compassione, vuole dargli un’estrema possibilità: se avesse raccolto una certa pianta, che si trova in fondo al mare, e l’avesse mangiata, avrebbe guadagnato l’immortalità. Ancora una volta, l’eroe affronta con successo l’impresa e, mentre fa ritorno alla sua città con l’intento di far mangiare la pianta a tutti gli uomini, essendosi fermato a bere da una sorgente e avendo deposto a terra la pianta, un serpente gliela rapisce. Così Gilgamesh ritorna a Uruk a mani vuote.
Il mito di Gilgamesh ci permette di cogliere il livello di civiltà raggiunto dai sumeri, che appaiono in grado di riflettere sulla natura degli uomini. Dal momento che l’intelligenza, la forza, la volontà e il coraggio non bastano a fare di lui un essere immortale, all’uomo altro non resta che accettare i propri limiti e rassegnarsi al proprio destino. Tale è il senso tragico dell’opera, che presenta tratti di grande interesse, alcuni dei quali saranno poi ripresi dalla letteratura successiva, in particolare dalla Bibbia (Giardino delle Delizie, Diluvio) e dai poemi omerici (uomini-eroi, dèi antropomorfizzati, viaggio avventuroso, pianto per la morte dell’amico).