Storia08

Da Ortosociale.

E' un commento di Immanuel Wallerstein sulle recenti rivolte che si susseguono come incendi che si propagano e riemergono anche quando sembravano spenti. La tesi di IW è che si tratti di una continuazione della RIVOLUZIONE MONDIALE del 1968 che IW ha conosciuto direttamente. Rivoluzione che ha coinvolto sia il Nord (ricco) del mondo, sia il Sud (povero), e che all'epoca ha tentato di RIUNIFICARLI. E' difficile fare accostamenti ed ancora di più fare previsioni. Di sicuro le attuali rivolte (tutte) sono rivolte ANTIAUTORITARIE come il 68. E sono collegate idealmente tra loro. Forse ci manca la fantasia necessaria per accettare le grandi differenze culturali e individuali necessarie ad alimentare la sete di libertà degli esseri umani. Dopo la traduzione in italiano il testo inglese originale.
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Commentary No. 356, July 1, 2013

"Rivolte qui, là e dappertutto" La rivolta ormai persistente in Turchia è stata seguita da una rivolta ancora più grande in Brasile, che a sua volta è stata seguita da una meno pubblicizzata, ma non meno reale, rivolta in Bulgaria. Naturalmente, queste rivolte non sono le prime, ma solo le ultime di una serie davvero mondiale di tali rivolte in questi ultimi anni. Ci sono molti modi per analizzare questo fenomeno. Io lo vedo come il processo che continua ciò che era iniziato con la rivoluzione mondiale del 1968.
Certamente ogni rivolta è particolare per i dettagli e i rapporti tra le forze interne di ogni Paese. Ma ci sono alcune somiglianze che dovrebbero essere notate, se si vuole dare un senso a ciò che sta accadendo e decidere su ciò che tutti noi, come individui e come gruppi, dovremmo fare.
La prima caratteristica comune è che tutte le rivolte tendono a iniziare come piccole cose - una manciata di persone coraggiose che dimostrano su qualcosa. E poi, se prendono il via, cosa che è in gran parte imprevedibile, diventano enormi. Improvvisamente; non solo è il governo sotto attacco, ma, in una certa misura, lo Stato come Stato. Queste rivolte sono una combinazione di quelli che chiedono al governo di essere sostituito da uno migliore e di quelli che mettono in discussione la stessa legittimità dello Stato. Entrambi i gruppi invocano i temi della democrazia e dei diritti umani, anche se le definizioni che danno a questi due termini sono molto vari. Nell'insieme, la tonalità di queste rivolte inizia sul lato sinistro dell'arena politica. I governi al potere naturalmente reagiscono. O si cerca di reprimere la rivolta o si cerca di placare la gente con alcune concessioni o si provano entrambe le risposte. La repressione spesso funziona, ma a volte è controproducente per il governo in carica, portando ancora più gente nelle strade. Le concessioni spesso funzionano ma sono a volte controproducenti per il governo, portando le persone in strada per aumentare le loro richieste. In generale, i governi cercano la repressione più delle concessioni. E in generale, la repressione tende a funzionare su periodi relativamente brevi.
La seconda caratteristica comune a queste rivolte è che nessuna di loro riesce ad andare avanti a velocità elevata per troppo tempo. I manifestanti cedono alle misure repressive. O vengono in qualche modo cooptati dal governo. O che vengono stremati dall'enorme sforzo richiesto da dimostrazioni continue. Questa dissolvenza delle proteste palesi è assolutamente normale. Essa non indica un fallimento delle proteste.
Questa è la terza caratteristica comune delle rivolte. Comunque finiscano, lasciano un'eredità. Hanno cambiato qualcosa nella politica del paese, e quasi sempre per il meglio. Hanno messo in agenda pubblica qualche questione importante, come ad esempio le disuguaglianze. O hanno aumentato il senso di dignità degli strati inferiori della popolazione. O hanno aumentato lo scetticismo circa la verbosità in cui i governi tendono a nascondere le loro politiche.
La quarta caratteristica comune è che, in ogni rivolta, molti di quelli che si uniscono, soprattutto se si uniscono in ritardo, lo fanno non al fine di promuovere gli obiettivi iniziali, ma allo scopo di pervertirli e portare al potere gruppi politici di destra che sono diversi da quelli attualmente al potere [NdR: è successo in Egitto dove i Fratelli Musulmani si sono uniti tardi alla rivolta contro Mubarak e hanno poi preso il potere con Morsi], ma non per questo più democratici o solleciti dei diritti umani.
La quinta caratteristica comune è che tutti vengono coinvolti nel gioco geopolitico. Potenti governi, al di fuori del paese in cui l'agitazione è in corso lavorano duramente, anche se non sempre con successo, per far giungere al potere i gruppi che sono favorevoli ai loro interessi. Questo accade così spesso che, ormai, una delle domande immediate circa una particolare rivolta è sempre, o dovrebbe essere sempre, su quali che saranno le conseguenze in termini di sistema-mondo nel suo complesso. Questo è molto difficile, in quanto potenziali conseguenze geopolitiche potrebbero indurre a voler andare in direzione opposta al senso antiautoritario iniziale [NdR: questo fenomeno oscura la lettura dei fatti spiegandoli come pure "cospirazioni" estere e dimenticando la natura ANTIAUTORITARIA delle rivolte].
Infine, ricordiamo in questo, come in tutto ciò che sta accadendo ora, che siamo nel bel mezzo di una transizione strutturale da una economia-mondo capitalistica che si dissolve ad un nuovo tipo di sistema. Ma questo nuovo tipo di sistema potrebbe essere migliore o peggiore. Questa è la vera battaglia dei prossimi 20-40 anni, e come ci comportiamo qui, là e ovunque deve essere deciso in funzione di questa battaglia politica mondiale fondamentale e importante.

di Immanuel Wallerstein

Commentary No. 356, July 1, 2013

"Uprisings Here, There, and Everywhere" The now persistent uprising in Turkey has been followed by an even larger uprising in Brazil, which in turn has been followed by a less noticed, but no less real, uprising in Bulgaria. Of course, these uprisings were not the first but merely the latest in a truly worldwide series of such uprisings in recent years. There are many ways to analyze this phenomenon. I see them as the continuing process of what started as the world-revolution of 1968.

To be sure, every uprising is particular in its details and the internalrapport de forces in each country. But there are certain similarities that should be noticed, if one is to make sense of what is going on and decide on what we all, as individuals and as groups, ought to do.

The first common feature is that all the uprisings tend to start very small - a handful of courageous people demonstrating about something. And then, if they catch on, which is largely unpredictable, they become massive. Suddenly, not only is the government under assault but, to some extent, the State as State. These uprisings are a combination of those calling for the government to be replaced by a better one and those questioning the very legitimacy of the State. Both groups invoke the themes of democracy and human rights, although the definitions they give to these two terms are very varied. On the whole, the tonality of these uprisings starts on the left side of the political arena.

Governments in power react of course. Either they try to repress the uprising or they try to appease it by some concessions or they try both responses. Repression often works but sometimes is counterproductive for the government in power, bringing still more people into the streets. Concessions often work but are sometimes counterproductive for the government, leading the people in the street to escalate their demands. Generally speaking, governments try repression more than concessions. And generally speaking, repression tends to work in the relatively short run.

The second common feature of these uprisings is that none of them keep going at high speed for too long. The protestors yield to repressive measures. Or they get somewhat co-opted by the government. Or they get weary of the enormous effort required by continual demonstrations. This fading of the overt protests is absolutely normal. It does not indicate failure of the protests.

That is the third common feature of the uprisings. However they come to an end, they leave a legacy. They have changed something in the politics of the country, and almost always for the better. They have put some major issue, as for example inequalities, on the public agenda. Or they have increased the sense of dignity of the bottom strata of the population. Or they have increased skepticism about the verbiage in which governments tend to cloak their policies.

The fourth common feature is that, in every uprising, many who join it, especially if they join it late, do so not in order to further the initial objectives but to pervert them or bring to political power right-wing groups who are different from those currently in power but by no means more democratic or solicitous of human rights.

The fifth common feature is that they all get embroiled in the geopolitical juggling. Powerful governments outside the country in which the turmoil is occurring work hard, if not always successfully, to help groups that are favorable to the outside government's interests come to power. This happens so often that, by now, one of the immediate questions about a particular uprising is always, or should always be, what will be its consequences in terms of the world-system as a whole. This is very difficult, as potential geopolitical consequences may lead one to want to go in directions opposite to the initial anti-authoritarian direction.

Finally, let us remember in this, as in everything that is happening now, that we are in the midst of a structural transition from a fading capitalist world-economy to a new kind of system. But that new kind of system could be better or worse. That is the real battle of the next 20-40 years, And how we behave here, there, and everywhere must be decided in function of this fundamental and major worldwide political battle.

by Immanuel Wallerstein

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