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Da Ortosociale.

La Protesi

Il dibattito sul blog di Lorella Zanardo attorno all’incontro senese di "Se non ora quando" evidenzia la necessità che le donne ritrovino quel comune denominatore che ha consentito loro di assicurare alla specie la sopravvivenza e la sua peculiare evoluzione. Solo così il conflitto, inevitabile nei rapporti umani, può trasformarsi da animosa litigiosità e chiusura escludente in confronto aperto, capace di promuovere la crescita individuale e collettiva. A tale denominatore conduce la significativa affermazione di Audre Lorde “non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”, più volte citata. L’attrezzo per eccellenza di cui il maschio umano si serve per vivere da “padrone”, reificando non solo il genere femminile, ma anche l’altro uomo e tutti i viventi, è il suo punto di vista sul mondo, contrabbandato per l’unico possibile e magnificato come la quintessenza della razionalità. Poiché, come asserisce Albert Einstein, “i problemi non possono essere risolti al medesimo livello di pensiero che li ha creati”, l’attrezzo da sostituire non può che essere il pensiero unico che governa – in malo modo e abusivamente - l’intero pianeta. Purtroppo millenni di cattività hanno prodotto un restringimento forzato della visione del mondo femminile. Oramai ognuna di noi possiede una specie di protesi che riduce drasticamente l’apertura della nostra mente e ci porta ad utilizzare meccanismi di pensiero a noi estranei. Non c’è dubbio, infatti, che i rapporti tra donne ripetono spesso la frammentazione, la conflittualità, la chiusura, la proiezione sull’altra della propria parte rifiutata, tipiche del mondo maschile. Pur non determinando i medesimi stati parossistici che appiattiscono la vita pubblica e privata degli uomini sullo schema semplicistico amico-nemico, scaturigine permanente di guerra, gli aspetti prima menzionati impediscono alle donne di riconoscere ciò che le accomuna al di là delle differenze, cioè stare intere nel mondo usando tutti i sensi per conoscerlo nella sua interezza e ricchezza. La differenza femminile consiste proprio nell’ampiezza dello sguardo che conferisce alla mente larghezza e plasticità tali da ospitare un reale complesso, intimamente coeso e in divenire. Il problema nasce con l’imposizione alle donne delle categorie maschili, parziali e riduttive, che producono una deformazione della realtà, rendendola illeggibile, quindi ingestibile. Siccome la conoscenza è la caratteristica fondamentale del vivente perché gli permette di mantenersi in vita, confrontarsi con la realtà qual è, non con una sua fantastica interpretazione, è un imperativo categorico. Le donne, però, continuano a considerare valida la razionalità maschile, nonostante la sua palese insensatezza e inadeguatezza, pretendendo di far scaturire la realtà dalla finzione. Si battono strenuamente, infatti, per assicurare la soddisfazione delle loro reali esigenze a viventi singoli e concreti che non esistono nel sistema di pensiero dominante. Anzi, avendo interiorizzato il concetto maschile di organismo, diffidano anche loro della biologia, divenuta una parola impronunciabile. Il fatto è che, malgrado la cancellazione simbolica, noi continuiamo ad essere organismi che proprio al fatto di essere viventi e senzienti devono la capacità di pensare ed agire. L’ignoranza di ciò che realmente siamo è all’origine delle scelte distruttive che stanno mettendo in serio pericolo la nostra permanenza sulla terra. Possiamo uscire da questa tragica situazione abbandonando completamente la strada intrapresa dagli uomini. Non si tratta, infatti, di aiutarli nell’impresa disperata di modificare il reale per farlo rientrare nel collo di bottiglia di categorie mentali inadatte a contenerlo. Viceversa si possono e si devono modificare, allargandole, le categorie di riferimento. L’organismo, ad esempio, non è la rigida carcassa che gli uomini credono sia, né la biologia è il destino, come Freud pensava, perché gli organismi sono in continuo stato di formazione, trasformazione e rinnovamento. L’assetto concettuale può rispecchiare benissimo tale plasticità, ricchezza, mutevolezza, a condizione che l’esperienza sia in grado di nutrire in modo adeguato la mente. Gli uomini hanno costruito le loro società scartando proprio le esperienze vitali, per questo si sono defilati per la tangente dell’ideale-generale-astratto, approdando in un mondo nebuloso dove non c’è posto per la vita, basti pensare che le spese militari fagocitano la maggior parte delle risorse a livello planetario. Il nostro compito principale è, perciò, rimettere al centro il vivente e riassegnare alle attività di cura e di sostegno il valore cognitivo ed etico che di fatto hanno. Solo comunità che si organizzano per custodire la vita, non per inseguire il potere, possono difatti sperare di promuovere in tutti i membri lo sviluppo intelligente dell’affettività e quindi l’evoluzione razionale della mente. Ostacolano la realizzazione del superiore compito la lamentata rivalità, l’invidia - che non è “la peste delle donne”, come è stata definita, ma il tratto costitutivo della psiche maschile – e la molesta attribuzione all’altra donna di intenzioni che non le appartengono. Però la consapevolezza del fatto che questi ed altri aspetti negativi derivano dall’acquisizione di modalità cognitive limitanti, dovrebbe portare al loro graduale abbandono e al recupero di quell’ampia visione nella quale ciascuna/o trova posto. A mio parere l’intelligente pratica femminista di partire da sé dovrebbe ora essere rivolta al superamento dei meccanismi mentali maschili, rintracciandoli nei propri pensieri e nelle proprie azioni prima ancora che all’esterno.

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