Il principio Federale1
Da Ortosociale.
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Pierre Joseph Proudhon
Pierre Joseph Proudhon (1809-1865) è considerato il primo e più grande
teorico della concezione federale dello Stato ed è il caposcuola del
federalismo "integrale", "della persona" o del "nuovo umanesimo". A causa
del suo grave dissidio con C. Marx e col comunismo, è pressoché
sconosciuto in Italia.
Scopo di questa pubblicazione è la diffusione della conoscenza del
federalismo di cui moltissimi politici, ed i giornalisti in genere, parlano
senza conoscerne i principi e gli elementi fondamentali che lo
contrappongono all'idea dello Stato sovrano, accentrato, unitario ed
indivisibile quale ancora è l'Italia del terzo millennio.
La conoscenza della teoria del federalismo definita da Proudhon, indica i
giusti concetti per avviare un vero e proprio cambiamento di logica della
politica, anche tenendo presenti le esperienze ormai consolidate di
libertà di scelta, di possibilità di iniziativa e di progressivo benessere
degli Stati federali più avanzati del mondo: la Svizzera e gli Stati uniti
d'America. Pur con i loro problemi e contraddizioni, infatti, questi Paesi
hanno indicato la condizione federale o contrattuale quale rimedio
all'instabilità dell'ordine politico ed al controllo del potere dei
rappresentanti da parte del popolo; stabilità e controllo necessari per il
progresso civile della società per mezzo del governo di ognuno per il bene
di tutti.
Il Libro
Introduzione, traduzione a cura di Paolo Bonacchi - II libri dell'Unione:
Pierre Joseph Proudhon: Del principio federativo Proprietà letteraria riservata © 2005 Bonacchi Paolo.
E-Mail dell'autore: <paolo.bonacchi@tele2.it> I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa con un mezzo qualsiasi senza autorizzazione scritta dell'autore. In copertina: ritratto di Pierre Joseph Proudhon fatto dall'amico pittore Gustave Courbert. Stampa Global Print, Gorgonzola (Mi)
Paolo Bonacchi è nato ad Agliana (Pistoia) nel 1939. E' stato uno dei fondatori dell'Unione federalista del Prof. G. Miglio. Ha collaborato col settimanale Terra e Vita per le tematiche relative alla tecnica ed alla legislazione apistica; ha pubblicato numerosi articoli sui temi attinenti la democrazia diretta ed il federalismo sul settimanale l'Uomo qualunque nuova edizione, diretto da Lucio Lami; è autore dei Libretti per il federalismo e l'autogoverno pubblicati dall'UNIONE per l'Autogoverno; ha curato la presentazione e la traduzione di questa nuova edizione di Del Principio federativo di Pierre Joseph Proudhon.
DEL PRINCIPIO FEDERATIVO di Pierre Joseph Proudhon
Prefazione
PREFAZIONE
Quando qualche mese orsono, a proposito di un articolo
sull'Italia nel quale io difendevo la federazione contro il sistema
unitario, i giornali belgi mi accusarono di propagandare
l'annessione del loro paese alla Francia, la mia sorpresa fu
grande. Non sapevo cosa credere: se ad una allucinazione del
pubblico oppure ad un tranello della polizia e la mia prima
reazione fu allora di domandare ai miei accusatori se mi
avessero letto: in questo caso, se fosse serio che mi facessero
una simile accusa. Si sa come finì per me questa incredibile
disputa. Certo non mi ero affrettato, dopo un esilio di più di
quattro anni, ad approfittare dell'amnistia che mi autorizzava a
rientrare in Francia; traslocai rapidamente.
Ma quando, ritornato in patria, ho visto con lo stesso
pretesto, la stampa democratica accusarmi di abbandonare la
causa della rivoluzione, inveire contro di me, non più come se
io fossi un annessionista ma come apostata, confesso che la
mia sorpresa è arrivata al colmo. Mi sono chiesto se fossi un
Epinemide uscito dalla sua caverna dopo un secolo di sonno o
se per caso non fosse la stessa democrazia francese,
prendendo esempio dal liberalismo belga, ad aver subito un
processo involutivo. Mi appariva chiaro che federazione e
contro rivoluzione o annessione fossero termini incompatibili;
ma mi ripugnava credere alla defezione in massa del partito al
quale fino allora ero stato vicino, e che, non contento di
rinnegare i suoi principi, arrivava, nella sua febbre di
unificazione, perfino a tradire il suo paese. Ero impazzito,
oppure il mondo si era messo a mia insaputa a girare in senso
contrario? Come il topo di la Fontaine,
sospettando che sotto ci fosse qualche macchinazione
pensai che la scelta più saggia fosse di aggiornare la mia
risposta e di osservare per qualche tempo, gli stati d'animo.
Sentivo che avrei dovuto prendere una risoluzione energica ed
avevo bisogno, prima di agire, di orientarmi su un terreno che,
da quando ero uscito dalla Francia, mi sembrava che fosse
stato sconvolto, ed in cui gli uomini che avevo conosciuto mi
apparivano come figure estranee.
Dov'è oggi il popolo francese, mi chiedevo? Cosa accade
nelle differenti classi della società? Quale idea è germogliata
nell'opinione pubblica e quali sono le aspirazioni della massa?
Dove va la nazione? Dov'è l'avvenire? Chi seguiremo ed in che
cosa crediamo?
Andavo avanti così, interrogando uomini e cose, cercando
nell'angoscia e raccogliendo solo risposte desolate. Il lettore mi
permetta di esprimergli alcune mie considerazioni: serviranno
come giustificazione per una pubblicazione il cui tema, lo
confesso, è essere molto al di sopra delle mie forze.
Per prima cosa ho preso in esame la classe media, un tempo
anche chiamata borghesia, e che ormai non può più portare
questo nome. L'ho trovata fedele alle sue tradizioni alle sue
tendenze ai suoi principi benché avanzi con passo celere verso
il proletariato. Se la classe media dovesse ritornare padrona di
se stessa e del Potere; se dovesse essere chiamata a rifarsi
una costituzione secondo le sue idee ed una politica secondo il
suo cuore, si potrebbe senza dubbio prevedere cosa
accadrebbe. Astraendo da ogni preferenza dinastica, la classe
media ritornerà al sistema del 1814 e del 1830, forse con una
lieve modifica concernente la prerogativa regia, analoga
all'emendamento apportato all'art. 14 della Carta, dopo la
rivoluzione di luglio. La monarchia costituzionale, in una parola,
ecco qual è ancora la fede politica e la segreta speranza della
maggioranza borghese. Ecco la misura della fiducia che essa
ha in se stessa; né il suo pensiero, né la sua determinazione
vanno oltre. Ma, proprio a causa di questa predilezione per la
monarchia, la classe media, nonostante abbia numerose e forti
radici nel presente e benché, per l'intelligenza, la ricchezza, il
numero, essa costituisca la parte più considerevole della
nazione, non può essere considerata come l'espressione
dell'avvenire; si rivela come il partito per eccellenza dello statu
quo, è lo statu quo personificato.
Ho portato in seguito la mia attenzione sul governo, sul
partito di cui è più propriamente l'organo e, devo dire, li ho
trovati in fondo sempre gli stessi, fedeli all'idea napoleonica,
malgrado le concessioni che strappano loro lo spirito del secolo
da un lato e dall'altro l'influenza di quella classe media senza la
quale e contro la quale non è possibile alcun governo. Che
l'Impero sia reso a tutta la sincerità della sua tradizione, che la
sua potenza sia pari alla sua volontà, e domani avremo con gli
splendori del 1804 e del 1809 le frontiere del 1812; rivedremo il
terzo Impero d'Occidente con le sue tendenze all'universalità e
la sua autocrazia inflessibile. Ora, è precisamente a causa di
questa fedeltà alla sua idea che l'impero, pur essendo l'attualità
stessa, non può dirsi l'espressione dell'avvenire, poiché,
affermandosi come conquistatore ed autocratico, negherebbe la
libertà, poiché esso stesso, promettendo un coronamento
dell'opera, si è posto come governo di transizione. L'impero è la
pace, ha detto Napoleone III. Sia; ma allora l'impero non
essendo più la guerra non potrebbe essere lo statu quo?
Ho osservato la Chiesa e le rendo volentieri giustizia; è
immutabile. Fedele al sua dogma, alla sua morale, alla sua
disciplina, come al suo Dio, non fa concessioni al secolo se non
nella forma; non fa suo lo spirito del tempo e non cammina con
lui. La Chiesa sarà l'eternità, se volete, la più alta espressione
di statu quo: non è il progresso; né potrebbe essere
l'espressione dell'avvenire.
Come la classe media ed i partiti dinastici, come l'Impero e la
Chiesa, anche la Democrazia è frutto del presente; lo sarà
finché esisteranno delle classi superiori ad essa: una
monarchia e delle aspirazioni di nobiltà, una Chiesa ed un
sacerdozio; fintantoché non sarà compiuto un livellamento
politico, economico e sociale.
Dopo la Rivoluzione francese, la democrazia ha scelto il
motto: Libertà, Uguaglianza. Poiché per sua natura e funzione,
essa, è il movimento, la vita, la sua parola d'ordine è: Avanti! La
democrazia poteva dunque dirsi e sola può essere
l'espressione dell'avvenire; questo è, in effetti, ciò che il mondo
ha creduto dopo la caduta del primo impero e al tempo
dell'avvento della classe media. Ma per esprimere l'avvenire,
per mantenere le promesse, sono necessari dei principi, un
diritto, una scienza, una politica, tutte cose di cui la Rivoluzione
sembrava aver posto le basi. Ora, ecco che, cosa inaudita, la
Democrazia si mostra infedele a se stessa; ha rotto con le sue
origini, mostra la schiena ai suoi destini. Da tre anni la sua
condotta è stata un'abdicazione, un suicidio. Senza dubbio fa
ancora parte del presente, ma come partito dell'avvenire non
esiste più. La coscienza democratica è vuota: un pallone
sgonfiato, che qualche consorteria, qualche intrigante politico si
lancia, ma che nessuno ha il segreto per farla gonfiare di
nuovo. Ormai non ci sono più idee: al loro posto fantasie
romantiche, miti, idoli. L' '89 è stato accantonato, il '48 messo
alla berlina. Quello che resta non ha più senso politico, né
senso morale, né senso comune; è l'ignoranza completa,
l'ispirazione dei grandi giorni totalmente perduta. La posterità
non potrà credere che fra la moltitudine di lettori che una
stampa privilegiata mantiene ce n'è appena uno su mille che
sospetti cosa significhi la parola federazione. Senza dubbio, gli
annali della Rivoluzione non ci hanno fatto capire grandi cose al
riguardo; ma insomma non si può essere il partito dell'avvenire
fossilizzandosi nelle passioni di un'altra epoca; il vero compito
della Democrazia è di produrre le sue idee, di modificare per
conseguenza la propria parola d'ordine. La Federazione è la
parola nuova sotto la quale la Libertà, l'Uguaglianza, la
Rivoluzione, con tutte le sue conseguenze, sono apparse
nell'anno 1859 alla Democrazia. I liberali ed i democratici, non
vi hanno visto altro che un complotto reazionario!
Dopo l'istituzione del suffragio universale, la Democrazia,
considerando che era venuto il suo regno, che il proprio
governo aveva superato le prove, che non c'era altro da
discutere che la scelta degli uomini, e che essa si riteneva la
forma suprema dell'ordine, ha voluto infine costituirsi a sua
volta come partito dello statu quo. Lungi dall'essere padrona
degli affari, già si accomoda per l'immobilismo. Che fare
dunque quando ci si considera Democrazia, si rappresenta la
Rivoluzione e si è arrivati all'immobilismo? La Democrazia ha
ritenuto che la sua missione fosse quella di riparare le antiche
ingiustizie, di risollevare le nazioni oppresse, in una parola, di
rifare la storia! E' ciò che essa esprime col termine Nazionalità,
scritto come intestazione del suo nuovo programma. Non
contenta di farsi partito dello statu quo, si è fatta partito
reazionario. E siccome la Nazionalità, nel senso in cui la
comprende e l'interpreta la Democrazia, ha per corollario
l'Unità, essa ha messo il sigillo alla sua abiura, dichiarandosi
definitivamente potere assoluto, indivisibile ed immutabile.
La Nazionalità e l'Unità, ecco cos'è al giorno d'oggi la fede, la
legge, la ragion di Stato, ecco quali sono gli Dei della
Democrazia. Ma la Nazionalità per essa non è che una parola,
perché nel pensiero dei democratici essa non rappresenta che
un'utopia. Quanto all'Unità, vedremo nel corso di questo scritto
ciò che bisogna pensare del regime unitario. Ma posso dire nel
frattempo, a proposito dell'Italia e dei rimaneggiamenti a cui è
soggetta la carta politica di questo Paese, che questa unità che
ha suscitato un così vivo entusiasmo dei cosiddetti amici del
popolo e del progresso, nel pensiero dei furbi è soltanto un
affare, un grosso affare, mezzo dinastico e mezzo
bancocratico, verniciato di liberalismo, ammantato di
cospirazione ed al quale onesti repubblicani male informati o
ingannati, servono da chaperon.
Tale Democrazia, tale giornalismo. Dall'epoca in cui
condannavo, nel Manuale dello speculatore di borsa, il ruolo
mercenario della stampa, nulla è cambiato; essa non ha fatto
che allargare il giro dei suoi affari. Tutto ciò che un tempo essa
possedeva di ragione, di spirito, di critica, di conoscenza, di
eloquenza, si è ridotto, salvo rare eccezioni, a queste due
parole che ho preso in prestito dal gergo del mestiere:
DIFFAMAZIONE e Pubblicità. Essendo stata affidata ai giornali
la questione italiana, proprio come se si trattasse di una società
in accomandita, questi stimati pezzi di carta, come una claque
che obbedisce al segnale del capo, hanno cominciato a
trattarmi da mistificatore, da giullare, da borbonico, da papalino,
da Erostrato da rinnegato, da venduto: abbrevio la litania.
Dopo, assumendo un tono più calmo, si sono messi a ricordare
che io ero stato l'irriducibile nemico dell'Impero e di ogni
governo, della Chiesa e di ogni religione, come di tutta la
morale: un materialista, un anarchico, un ateo, una sorta di
Catilina letterario che sacrifica tutto, pudore e buonsenso, alla
smania di far parlare di se, e la cui tattica ormai scoperta
consisteva nell'associare subdolamente la causa
dell'Imperatore a quella del Papa, spingendoli entrambi contro
la democrazia, al fine di screditare gli uni mediante gli altri, tutti i
partiti e tutte le opinioni, e di elevare un monumento al mio
orgoglio sulle rovine dell'ordine sociale. Tale è stato il senso
delle critiche di fondo del Siècle, dell'Opinion nationale, di La
presse, di l'Echo de la Presse, di la Patrie, del Pays, dei
Débats: alcuni li ometto, perché non li ho letti tutti. Si è
ricordato, in questa occasione, che io ero stato la principale
causa della caduta della repubblica; e si sono trovati dei
democratici assai rammolliti di cervello per dirmi all'orecchio
che un simile scandalo non si sarebbe ripetuto, che la
democrazia era reduce dalle follie del 1848, e che il primo a cui
essa destinava le sue balle conservatrici ero io.
Non vorrei affatto attribuire a certe violenze ridicole, degne
dei fogli che le ispirano, più importanza di quanta ne meritino; le
cito come esempio dell'influenza del giornalismo
contemporaneo e come testimonianza dello stato degli animi.
Ma se il mio amor proprio d'individuo se la mia coscienza di
cittadino sono al di sopra di simili attacchi, la stessa cosa non è
per la mia dignità di scrittore interprete della Rivoluzione. Ne ho
abbastanza degli oltraggi di una democrazia decrepita e dei
soprusi dei suoi giornali. Dopo il 10 dicembre 1848, vedendo la
maggior parte del Paese e tutta la potenza dello Stato rivolti
contro ciò che mi sembrava essere la Rivoluzione, tentai di
avvicinarmi ad un partito che, sebbene sprovvisto di idee valeva
ancora per il numero. Questo fu uno sbaglio, che ho
amaramente rimpianto, ma a cui posso ancora rimediare.
Dobbiamo essere noi stessi, se vogliamo essere qualcosa:
formiamo, se è il caso, con i nostri avversari ed i nostri rivali
delle federazioni, mai delle fusioni. Quel che mi sta accadendo
da tre mesi, mi ha fatto decidere, irreversibilmente. Fra un
partito caduto nel romanticismo, che in una filosofia del diritto
ha saputo scoprire un sistema di tirannia e nelle manovre della
speculazione una forma di progresso; per il quale i sistemi
dell'assolutismo sono virtù repubblicana e le prerogative della
libertà sinonimo di rivolta; fra quel partito, io dico, e l'uomo che
cerca la verità della Rivoluzione e la sua giustizia, non vi può
essere niente in comune. La separazione è necessaria e, senza
risentimento né timore, io la compio.
Durante la prima rivoluzione, i giacobini, avvertendo di volta
in volta il bisogno di ritemprare la società, effettuavano su loro
stessi quello che allora si chiamava epurazione. E' ad una
prova di questo genere che io invito quello che resta degli amici
sinceri ed illuminati dalle idee dell' '89. Sicuro dell'appoggio di
una élite, potendo contare sul buonsenso delle masse, io
rompo, da parte mia, con una fazione che non rappresenta più
niente. Dovessimo essere non più di un centinaio, questo è
abbastanza per ciò che oso incominciare. In ogni tempo la
verità ha servito i propri persecutori; ma anche se dovessi
cadere vittima di quelli che sono deciso a combattere, avrei
almeno la consolazione di pensare che, una volta spenta la mia
voce, il mio pensiero otterrà giustizia e che prima o poi i miei
nemici saranno i miei apologeti.
Ma che cosa dico? non ci sarà né processo né esecuzione: il
giudizio del pubblico mi ha già scagionato. Non era forse corsa
la voce, riportata da molti giornali, che la risposta che pubblico
in questo momento avrebbe avuto per titolo: gli Iscarioti?
....Niente è valido quanto la giustizia della pubblica opinione.
Ahimè! A torto darei al mio opuscolo questo titolo cruento,
anche se troppo meritato per qualcuno. Dopo due mesi che
esamino gli stati d'animo, mi sono reso conto che, se la
democrazia brulica di Giuda, vi si trovano ancor più San Pietro
ed io scrivo per questi almeno quanto per quelli. Ho dunque
rinunciato alla gioia d'una vendetta; mi riterrò molto fortunato
se, come il gallo della Passione, potrò far rientrare in sé tanti
deboli di coraggio, e restituir loro con la coscienza l'intelligenza.
Poiché in una pubblicazione, la cui forma era piuttosto
letteraria che didattica, si è cercato di non cogliere il pensiero
che ne costituiva lo spirito, sono costretto a ritornare ai
procedimenti della scuola e ad argomentare secondo le regole.
Divido dunque questo lavoro, molto più lungo di quanto avessi
voluto, in tre parti: la prima, la più importante per i miei ex
correligionari politici, la cui ragione sta soffrendo, avrà per
scopo quello di enunciare i principi della materia; - nella
seconda applicherò questi principi alla questione italiana ed allo
stato generale degli affari, dimostrando la follia e l'immoralità
della politica unitaria; nella terza, risponderò alle obbiezioni di
quei Signori giornalisti, benevoli o ostili, che hanno creduto di
doversi occupare del mio ultimo lavoro, e farò vedere, per
mezzo del loro esempio, il rischio che corre la ragione delle
masse, sotto l'influenza di una teoria distruttrice di ogni
individualità.
Prego quelle persone, di qualsiasi opinione esse siano, che,
senza condividere la sostanza delle mie idee, hanno accolto le
mie prime osservazioni sull'Italia con qualche attenzione, di
accordarmi ancora la loro simpatia. Non spetterà a me, nel
caos intellettuale e morale nel quale siamo sprofondati, in
quest'ora in cui i partiti si distinguono, come i cavalieri che
combattono nei tornei, solo per il colore dei loro nastri, che gli
uomini di buona volontà, giunti da ogni punto dell'orizzonte,
trovare finalmente una terra consacrata sulla quale possano
almeno tendersi una mano leale e parlare un linguaggio
comune. Questa terra è quella del diritto, della morale, della
libertà e del rispetto per l'umanità in tutte le sue manifestazioni:
individuo famiglia, associazione, Stato; questa è la terra della
giustizia pura e franca in cui fraternizzano, senza distinzione di
partiti, di scuole, di culti, di rimpianti, di speranze, tutte le anime
generose. Quanto a quella frazione malandata della
democrazia, che ha creduto di diffamarmi con ciò che essa
definisce gli applausi della stampa legittimista, clericale e
imperiale, non le dirò per il momento che una parola: che
l'infamia, se infamia c'è, fosse tutta sua. Stava ad essa
applaudirmi; il più grande servizio che potrò renderle sarà di
averglielo dimostrato.
CAPITOLO I
DUALISMO POLITICO. - AUTORITA' E LIBERTA':OPPOSIZIONE E CONNESSIONE DI QUESTE DUE NOZIONI
Prima di dire cosa s'intende per federazione conviene
ricordare, nello spazio di poche pagine, l'origine e la filiazione
dell'idea. La teoria del sistema federativo è del tutto nuova:
credo di poter dire che non è ancora stata formulata da
nessuno. Ma essa è intimamente legata alla teoria generale dei
governi; diciamo, più precisamente, che ne è la conclusione
necessaria.
Fra tante costituzioni che la filosofia propone e che la storia
mette alla prova, una sola riunisce le condizioni di giustizia, di
ordine, di libertà e di durata, senza le quali la società e
l'individuo non possono vivere. La verità è una come la natura:
sarebbe strano che fosse diversamente per lo spirito e per la
sua opera più grandiosa, la società. Tutti i pubblicisti hanno
ammesso questa unità della legislazione umana e, senza
negare la varietà delle applicazione che la differenza dei tempi
e dei luoghi e lo spirito proprio che ogni nazione reclamano;
senza disconoscere il ruolo che spetta alla libertà in tutti i
sistemi politici, tutti si sono sforzati di conformarvi le loro
dottrine. Io cerco di dimostrare che questo tipo di costituzione
unica, che alla fine sarà riconosciuta come la più grande
conquista della ragione dei popoli, non è altro che il sistema
federativo. Ogni forma di governo che si allontana da essa,
deve essere considerata come una creazione empirica, un
abbozzo provvisorio, più o meno comodo, sotto la quale la
società trova riparo un istante e che, come la tenda dell'Arabo,
si leva la mattina dopo averla montata la sera. E' dunque qui
indispensabile un'analisi severa, e la prima verità importante
che il lettore deve conquistare da questa lettura, è la
convinzione che la politica, variabile all'infinito come arte di
applicazione, è, quanto ai principi che la reggono, una scienza
dimostrativa esatta né più né meno che la geometria e
l'algebra.
L'ordine politico riposa fondamentalmente su due principi
contrari, l'AUTORITA', e la libertà: il primo iniziatore, il secondo
determinatore; avente questo per corollario la ragione libera,
quello la fede che induce all'obbedienza.
Penso che contro questa prima proposta, non possa alzarsi
alcuna voce. L'Autorità e la Libertà sono tanto antiche nel
mondo quanto la razza umana: esse nascono con noi, e si
perpetuano in ciascuno di noi. Osserviamo solamente una
cosa, alla quale pochi lettori presterebbero essi stessi
attenzione: questi due principi formano, per così dire una
coppia di cui i due termini, indissolubilmente legati l'uno all'altro,
sono nondimeno irriducibili l'uno contro l'altro e restano,
qualunque cosa noi facciamo, in lotta perpetua. L'Autorità
suppone inconfutabilmente una libertà che la riconosca o che la
neghi; la Libertà a sua volta, nel senso politico della parola,
suppone un'autorità che tratti con essa, frenandola o
tollerandola. Sopprimetene l'una, l'altra non avrà più senso:
l'autorità senza una libertà che discuta, resista o si sottometta è
una parola vana; la libertà senza un'autorità che gli faccia da
contrappeso è un non-senso.
Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale,
magistrale, monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla
centralizzazione, all'assorbimento, è dato dalla natura, dunque
essenzialmente fatale o divino, come si preferisce. La sua
azione, combattuta, impedita dal principio contrario, può
estendersi indefinitamente, ma senza mai poter scomparire.
Il principio di libertà, personale, individualista, critico; fattore
di divisione, di elezione, di transazione, è dato dallo spirito.
Principio essenzialmente arbitrale di conseguenza superiore
alla natura di cui si serve, alla fatalità che domina; illimitato
nelle sue aspirazioni; suscettibile come il suo contrario, di
estensione e di riduzione, ma incapace quanto esso di esaurirsi
per il suo sviluppo, come di estinguersi per costrizione.
Ne consegue che in ogni società, anche la più autoritaria,
una parte è necessariamente riservata alla libertà; parimenti in
ogni società, anche la più liberale, una parte è destinata
all'autorità. Questa condizione è assoluta; nessun sistema
politico può sottrarsi ad essa. A dispetto della ragione il cui
sforzo tende incessantemente a risolvere la diversità nell'unità, i
due princìpi rimangono a confronto e sempre in opposizione.
Dalla loro tendenza contraria ed inevitabile e dalle loro
reciproche reazioni, risulta la dinamica della politica.
Tutto questo, lo confesso, non è forse molto nuovo, e più di
un lettore si chiederà se questo è tutto ciò che io ho da fargli
capire. Nessuno nega i concetti di natura e di spirito per quanto
oscuri possano apparire; nessun pubblicista si sogna di
smentire, contro l'autorità o la libertà, benché la loro
conciliazione o la loro eliminazione, sembrino ugualmente
impossibili. Dove dunque mi propongo di arrivare ripetendo
questo luogo comune?
Lo dirò subito: che tutte le costituzioni politiche, tutti i sistemi
di governo, compresa la federazione, possono ricondursi a
questa formula, l'Equilibrio dell'Autorità per mezzo della Libertà
e viceversa; è in conseguenza di questo che le categorie
adottate dopo Aristotele dalla moltitudine degli autori e grazie ai
quali i tipi di governo si classificano, gli Stati si differenziano, le
nazioni si distinguono, monarchia, aristocrazia, democrazia,
ecc., eccetto la federazione, si riducono a delle costruzioni
ipotetiche, empiriche, dalle quali la ragione e la giustizia non
ottengono che una soddisfazione imperfetta; è che tutti questi
sistemi, fondati sugli stessi dati incompleti, diversi solo per gli
interessi, i pregiudizi, le consuetudini, in fondo si assomigliano
e si equivalgono; che quindi, se non fosse per il disagio causato
dall'applicazione di questi falsi sistemi, e per le passioni
esasperate, gli interessi disconosciuti, le aspettative deluse,
che spingono ad accusarsi gli uni con gli altri, saremmo, alla
fine molto vicini a comprenderci; perché infine tutte queste
divisioni di partiti fra i quali la nostra immaginazione scava degli
abissi, tutte quelle diversità di opinioni che ci sembrano
inconciliabili, tutti questi antagonismi fortuiti che ci appaiono
senza rimedio, troveranno finalmente il loro equilibrio definitivo
nella teoria del governo federale.
Quante cose, direte voi, in una contrapposizione
grammaticale: AUTORITA'-Libertà!....- Ebbene! sì. Ho
osservato che le intelligenze comuni, che i bambini colgono
meglio la verità ricondotta ad una formula astratta, più che dalla
pesantezza di un volume di dissertazioni e di fatti. Ho voluto
comunque abbreviare questo lavoro per quelli che non possono
dedicarsi troppo alla lettura, e renderlo più incisivo lavorando su
delle semplici nozioni. AUTORITA'-Libertà, due idee opposte
una all'altra, condannate a vivere in eterna lotta o a perire
insieme: ecco, ciò certamente non è difficile da comprendere.
Abbiate soltanto la pazienza di leggermi, amici lettori, e se
avete compreso questo capitolo molto corto, mi direte in seguito
le vostre impressioni.
Altri capitoli
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 1
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 2
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 3
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 4
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 5
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 6
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 7