Antropos03

Da Ortosociale.

EVOLUZIONE CULTURALE E IMPATTO DELL"UOMO SULLA NATURA (1)

Danilo Mainardi
Dipartimento di Scienze Ambientali, Università Ca’ Foscari
Castello 2737/B, 30122 Venezia
e-mail mainardi@unive.it

L’impatto dell’uomo sulla natura è universalmente riconosciuto come allarmante, tale da minacciare fortemente, se non la nostra stessa sopravvivenza, almeno la qualità della nostra vita. È la prima volta, nella storia della vita sulla terra, che una singola specie è in grado di influire così radicalmente sul destino di tutte le altre, animali e vegetali, sconvolgendo, distruggendo ecosistemi. Ma, occorre rilevare, la nostra è una specie straordinaria, nel bene e nel male. Ebbene, sta proprio nello specifico umano la ragione della crisi ambientale, riconosciuta come la massima emergenza planetaria attuale. Percepire cosa si nasconde nello specifico umano, e comprendere la qualità del danno indotto, è pertanto prerequisito per ogni realistico tentativo di cambiamento di rotta.

Ritengo utile, per affrontare il tema dell’impatto dell’uomo sulla natura, prestare molta attenzione all’etologia, la scienza naturale del comportamento. L’etologia, infatti, è la disciplina che, per la sua impronta comparativa, per l’attenzione al contesto ambientale, per la ricerca dei significati adattativi, più si presta per comprendere le straordinarie qualità, o per meglio dire diversità, del comportamento umano. Il comportamento dell’unica specie che si è evoluta per divenire la specialista per la produzione di cultura.

L’uomo dunque, Homo sapiens, e a proposito di questa specie desidero riportare le parole - un breve passo tratto da "La diversità della vita" (Rizzoli 1993) - di Edward Wilson, il fondatore della sociobiologia, scienziato che per i suoi vasti interessi - dalla biodiversità alla biofilia - ben rappresenta quella cultura di confine tra etologia e ecologia (la behavioural ecology) che più di ogni altra disciplina scientifica ha compreso la straordinaria importanza del comportamento inteso come l’effettivo mediatore dei rapporti tra l’organismo e l’ambiente. Le parole di Wilson: "Gli uomini, mammiferi appartenenti alla classe ponderale dei 50 chili e membri del gruppo dei primati, altrimenti noti per la loro rarità, sono divenuti cento volte più numerosi di tutti gli altri animali terrestri di pari dimensioni comparsi nel corso della storia della vita. L’umanità è un’entità ecologicamente anomala da qualunque punto di vista la si consideri: si appropria dell’energia solare fissata nella materia organica dai vegetali in misura variabile dal 20 al 40 per cento del totale, e va da sé che è impossibile sfruttare le risorse del pianeta in tale misura senza che ciò incida in modo drasticamente riduttivo sulle condizioni di vita di quasi tutte le altre specie."

Ecco, questa è la descrizione che Wilson fa, in un’ottica dichiaratamente ecologica, della nostra specie. Ora, l’anomala posizione dell’uomo nella natura, e le conseguenze che questo determina, derivano - ciò è universalmente accettato - dalle sue capacità di evoluzione culturale, o piuttosto dal maluso che ne ha fatto e che ne fa. Ebbene, uno dei meriti riconosciuti all’etologia è quello di avere dimostrato i fondamenti biologici e i significati adattativi delle capacità di produrre e trasmettere cultura.

In definitiva è stata questa scienza a offrirci con la maggiore evidenza un’immagine unificata dell’uomo - biologico e culturale insieme - scavalcando l’antico e radicato dualismo corpo-mente che, tra l’altro, aveva prodotto discipline dimezzate quali, per esempio, l’antropologia fisica da un lato e quella culturale dall’altro. Discipline che, occupandosi della medesima specie, sono ovviamente affini, e che invece sono state, per una serie di motivi massimamente di carattere ideologico, per lungo tempo praticamente non comunicanti.

Per la comprensione della biologia della cultura determinante è stato lo studio delle piccole culture animali, studio affrontato col metodo comparativo e in una prospettiva evolutiva. È stata la scoperta, in gruppi differenti di animali, della capacità di trasmettere, attraverso l’apprendimento sociale, soluzioni di problemi, informazioni, nuovi comportamenti, che ha consentito di aprire l’importante capitolo della biologia della cultura, soprattutto per quanto concerne i significati adattativi. In altre parole: poggiandosi sull’apprendimento e su strategie sociali, popolazioni di animali possono evolvere rapidamente comportamenti utili alla sopravvivenza come quelli antipredatori, abitudini alimentari, tragitti migratori, forme di comunicazione.

Questa capacità di trasmissione culturale è presente in animali tassonomicamente tra loro assai distanti, caratterizzati, comunque, con qualche eccezione, dall’elevata socialità. Si va dagli imenotteri sociali ai mammiferi ma, procedendo comparativamente, è soltanto nell’ambito dei primati che si nota il vero grande salto qualitativo. È in quest’ordine infatti che si assiste all’assommarsi di un sufficiente livello di consapevolezza (del resto già in tracce presente anche in alcuni altri mammiferi e uccelli) con i primi cenni di astrazione, di capacità di concettualizzazione e - come vedremo importantissimo per quanto concerne l’impatto dell’uomo sulla natura – con il controllo almeno parzialmente culturale dei comportamenti sociali.

Ma ora vediamo come ciò risulti fondamentale per la comprensione, in un’ottica naturalistica, della peculiare storia della nostra specie. Per un periodo straordinariamente lungo di tempo, praticamente per tutta la storia dell’umanità fino a grosso modo diecimila anni fa, l’uomo ha vissuto come cacciatore-raccoglitore con una distribuzione territoriale (territori trofici-riproduttivi) dove si trovava in equilibrio con la natura. L’uomo primitivo era cioè in grado di prelevare risorse senza depauperare né eccessivamente modificare l’habitat. Una strategia, denominata K, ben nota agli ecologi, analoga a quella di molte specie animali, come l’aquila, il leone, per citare le più note. Per quanto concerne la nostra specie, di ciò è ancora possibile avere testimonianza per l’esistenza di residue popolazioni, disseminate in varie regioni della terra, viventi con questo stile di sussistenza. Cito, come esempio, i Veddah di Ceylon (Sri Lanka), gli indiani canadesi cacciatori di castori, i Boscimani del Kalahari, i Pigmei Bambuti del Congo, i Waorani (Aucas) dell’Amazzonia.

Il vero "inizio del presente", la vera rivoluzione, è cominciata con l’addomesticamento degli animali e delle piante. Con il conseguente avvento della pastorizia e dell’agricoltura non solo ha avuto luogo il primo forte impatto negativo sulla biodiversità (p.e.: un campo coltivato con un’unica specie vegetale in sostituzione di una foresta), ma si è pure assistito, per il progressivo incremento delle risorse, al definitivo scollamento tra demografia e territorialità, fin’allora strettamente correlate nei territori trofico-riproduttivi. Compaiono i primi villaggi e poi le prime città, e va rilevato che è stato a causa del controllo culturale della sua socialità che l’uomo ha potuto cambiare completamente il suo stile di vita, fino a sopportare i grandi affollamenti metropolitani.

Contrapposta alla strategia K, esiste in natura la strategia R, che trova la sua estrema esemplificazione nelle specie dette "fuggitive", come i lemming, come i ploceidi africani detti lavoratori dal becco rosso (gli uccelli meglio studiati a questo proposito), come le cavallette. Specie che possono permettersi di sfruttare le risorse fino all’esaurimento perché usano aree discrete, perché stanno pur sempre all’interno di un sistema che le contempla. E lo stesso, per la verità, poteva anche dirsi per i primitivi agricoltori, anche loro, a causa della carente tecnologia, necessariamente "fuggitivi". Il fatto è, però, che purtroppo la situazione attuale di sfruttamento del pianeta ci rende, se vogliamo mantenere quest’immagine, dei "fuggitivi" che non sanno più dove fuggire.

La dimensione anomala dell’impatto dell’uomo sulla natura, nei termini quantitativi in cui l’ha descritta Wilson, trova infatti palesemente nell’esplosione demografica la sua causa più centrale e remota, anche se è evidente che il sovraffollamento non è l’unico punto su cui, soprattutto nel mondo attuale, deve accentrarsi il nostro interesse, perché molte sono ormai le cause, prossimali o distali, che producono comportamenti classificabili come maladattativi. Ma, soffermandoci sugli aspetti culturali che in vario modo possono interferire sul controllo demografico, è opportuno rilevare come ciò che ora conosciamo sulla biologia comparata del comportamento consenta di esprimerci con cognizione di causa sulla non fondatezza di alcune concezioni che sono state, e ancora sono, punti di riferimento ideologico per intere popolazioni, o almeno per parti rilevanti di esse.

Mi riferisco, in primo luogo, alla radicata abitudine di attribuire valori etici positivi a ciò che viene classificato come naturale. Convinzione erronea e pericolosa. Basti pensare alla frequente normale presenza, per meglio dire alla normalità, in natura, di fenomeni come il cannibalismo, lo stupro, l’infanticidio. La realtà è che le leggi della natura non tengono in alcun conto dell’etica, che è espressione della mente umana, ma solo del valore per la sopravvivenza. L’attribuzione di contenuti etici è attività esclusivamente umana, frutto della nostra compiuta consapevolezza, e della capacità di riflettere sui fenomeni, che soltanto la nostra specie ha raggiunto.

Il secondo punto su cui, al proposito, desidero soffermarmi, è la difficoltà (ma forse dovrei dire l’impossibilità), e comunque la scarsa utilità, di distinguere tra ciò che è naturale e ciò che, in quanto prodotto della cultura, non viene ritenuto tale. Occorre innanzitutto ribadire che le capacità di produrre cultura sono espressione diretta di caratteristiche biologiche che certe specie possiedono e altre no. La nostra ne è provvista in qualità e quantità straordinariamente elevate, così da essere evolutivamente divenuta l’unica specie specialista per la produzione di cultura. Maggiormente utile sarebbe, pertanto, e realistico, accettare la semplice idea che nella natura dell’uomo è compresa la sua specifica, biologica capacità di produrre e trasmettere cultura.

È da queste premesse che nasce la necessità di porsi, in relazione alle straordinariamente complesse e diversificate conseguenze dell’impatto dell’uomo sulla natura, differenti quesiti, legati a più attuali e impellenti concetti come la qualità della vita, come il rispetto ambientale che, per ricaduta, porta a riconoscere un valore forte e positivo a ogni specie, animale e vegetale.

A livello conoscitivo, si tratta di percorrere un tragitto pressoché obbligatorio che passa attraverso la comprensione del rapporto tra evoluzione biologica e evoluzione culturale (problema spesso descritto come il rapporto tra tempi storici e tempi biologici). Esistono importanti analogie tra evoluzione biologica e culturale, riguardanti i meccanismi di produzione di novità evolutive (mutazioni da un lato, nuove idee, nuovi comportamenti, soluzioni di problemi ecc. dall’altro; la contrapposizione sociobiologica tra geni e memi), riguardanti il caso (deriva genetica e deriva culturale) e le migrazioni (spostandosi i viventi disseminano sia geni che, se ne hanno la capacità, cultura).

Fondamentale, inoltre, è la constatazione dell’efficacia evolutivamente valutabile della selezione naturale sia su comportamenti controllati geneticamente che culturalmente. In altre parole: un’abitudine, sia essa trasmessa geneticamente che attraverso l’apprendimento sociale, se risulta maladattativa verrà comunque penalizzata dalla selezione naturale.

Detto delle analogie, rimane ora da sottolineare l’esistenza di una importante differenza, relativa al meccanismo di trasmissione, lento e conservativo per quanto concerne l’evoluzione biologica, veloce (sempre più veloce con l’evolversi delle modalità e tecnologie comunicative) quello dell’evoluzione culturale. Ne risulta che, quando vi è interferenza (impatto, interazione) tra le due, l’evoluzione biologica non è in grado di tenere il passo dell’evoluzione culturale. Da ciò nascono gli squilibri derivati dal comportamento umano di origine culturale: i tempi biologici necessari perché si evolvano le controstrategie adattative naturali sono troppo lenti per adeguarsi ai rapidi cambiamenti prodotti dall’uomo.

Per fare un esempio: studiando i rapporti tra una preda e il suo predatore sempre si nota la contemporanea presenza di una strategia predatoria e di una antipredatoria, parallelamente coevolutesi, ed è proprio questo che determina il mantenimento dell’equilibrio, in termini numerici di sopravvivenza, tra prede e predatori. Se, invece, al posto di un predatore c’è un predatore culturale (un cacciatore) che usa strategie evolute culturalmente, allora la preda si dimostra incapace di produrre adeguate controstrategie. È disarmata, ed è proprio ciò che spesso fa sì che la natura si trovi in crisi a causa dei troppo rapidi e improvvisi cambiamenti di ordine culturale. Ecco perché, come avevo anticipato, la natura (tempi biologici) non tiene il passo della cultura (tempi storici) (2) Facendo il punto: se le parole di Wilson ci hanno informato in termini quantitativi sulle dimensioni dell’impatto dell’uomo sulla natura, la comprensione del rapporto tra evoluzione biologica e evoluzione culturale ci rende ragione della causa remota di ogni squilibrio.

Nasce da questo complesso di spiegazioni la necessità di una presa di coscienza del fatto che la nostra cultura può essere troppo perturbante per la natura, così da risultare lesiva, se non addirittura distruttiva, per certe forme di vita, e conseguentemente per gli equilibri naturali. Ecco allora prendere forma l’esigenza di un cambiamento culturale. Secondo il corrente modo di esprimersi si tratterebbe della necessità di mettere in atto un progressivo slittamento da un atteggiamento antropocentrico a uno bio- (o eco-) centrico. Slittamento per la verità non facilmente raggiungibile, perché ogni specie, fondamentalmente, tende a essere "centrica". Inoltre, nel caso particolarissimo, unico, della nostra specie, ad assommarsi a un verosimile "centrismo" naturale, si sono culturalmente evolute concezioni filosofiche e/o religiose di supporto all’idea di un uomo al di fuori e/o al di sopra della natura (3). In realtà, secondo il mio modo di vedere, considerando che l’uomo è, senza possibilità di equivoco, dentro nella natura e sottoposto alle sue leggi, l’evolversi di una cultura attenta alla salvaguardia della natura stessa può venire più correttamente concepita come una sorta di antropocentrismo illuminato, lungimirante. Non teso, cioè, soltanto al raggiungimento di benefici a breve termine, ma attento alla conservazione, a lungo termine, di una natura essenziale per la nostra stessa sopravvivenza.

A questo punto, a titolo esemplificativo, propongo il caso attuale degli uccelli ittiofagi, che rientra in quello più generale per cui, per la nostra specie, ogni competitore naturale per qualche risorsa viene, acriticamente, classificato come "nocivo", trascurando di considerare il suo ruolo per il mantenimento degli equilibri naturali. Con l’allevamento industriale del pesce, e la conseguente sua concentrazione in speciali aree, si è recentemente assistito all’esplosione demografica di numerose specie di ittiofagi. Questi, in un’ottica che potrei definire (in conseguenza di quanto più sopra esposto) "veteroantropocentrica", venivano appunto, come ho anticipato, classificati come nocivi. Il prelievo da essi fatto veniva (e spesso ancora viene) calcolato dagli economisti come "danno indotto", e essi venivano di conseguenza sterminati senza pietà. Attualmente, a seguito di nuove direttive della Comunità Europea, ciò però non è più possibile, e pertanto il Ministero per le Risorse ha istituito una speciale commissione (in quest’ambito ho potuto acquisire esperienza) il cui compito è di studiare metodi più "rispettosi", basati su conoscenze eco-etologiche, e tendenti massimamente a spostare gli ittiofagi in altre aree dove possono trovare un libero foraggiamento, nonché a controllare, se possibile, il loro incremento demografico. Operazione che sta ottenendo qualche successo con alcune specie, quali per esempio nitticore, aironi e garzette, mentre si dimostra ancora problematica con altre. Per esempio con i cormorani. Ma non è certo questa la sede per entrare nel dettaglio, risulta comunque evidente che, se è facile sconvolgere gli equilibri naturali, non altrettanto facile è instaurare nuovi equilibri. Comunque, operando nel settore, ricorrente è la domanda, apparentemente ingenua: "Perché dobbiamo proteggere i cormorani?" Oppure: "A cosa servono?" E la risposta dovrebbe essere: "Fanno parte della biodiversità. Sono all’interno di un sistema complesso di interrelazioni, e sarebbe dannoso eliminarli." Risposta che, ovviamente, necessita ben più che poche spiegazioni per essere effettivamente assimilata, soprattutto da chi viene toccato nelle sue effettive risorse.

Ebbene, attraverso il problema puntiforme degli uccelli ittiofagi abbiamo, in definitiva, toccato il caso, di importanza planetaria, della salvaguardia della biodiversità. Pare che finalmente ci si renda conto che gli organismi viventi, nella loro diversità, rappresentando il risultato di milioni di anni di evoluzione, e, a gruppi, di coevoluzione, sono un patrimonio, un valore da conservare, da proteggere. Il problema della biodiversità può essere affrontato a differenti livelli conoscitivi. C’è ancora chi semplicisticamente crede che un luogo ricco di biodiversità sia, senz’altro approfondimento, quello dove è possibile rinvenire un grandissimo numero di specie, ma appare chiaro che questo fatto puramente quantitativo rappresenta un’informazione insufficiente (e talora distorcente o illusoria) per una valutazione dello stato reale della biodiversità di un ambiente. Il fatto è che ogni habitat determina, con le sue condizioni fisico-chimiche, una, qualitativamente e quantitativamente peculiare, diversità di forme viventi presenti, testimonianza e risultato di una lunga storia evolutiva.

La conoscenza procede per gradi: i sistematici classificano le forme, i biogeografi identificano le bioregioni (aree che fanno di certi ecosistemi un insieme unico). Ma anche ciò non è sufficiente per una comprensione del significato della biodiversità. Altre discipline devono essere coinvolte, e specificamente desidero soffermarmi sul ruolo centrale di quella scienza di confine che è l’ecologia comportamentale.

Essendo, come ho già rimarcato, il comportamento la manifestazione più esterna del fenotipo degli individui, e di conseguenza il tramite che media le interazioni tra gli organismi e l’ambiente – l’ambiente ovviamente inteso nel senso più lato - è l’ecologia comportamentale che consente la comprensione approfondita di ciò che produce e che mantiene la biodiversità, e tale comprensione si realizza soprattutto analizzando le interazioni tra le specie.

Ricordo, per fare un primo esempio, il caso di specie affini viventi nello stesso ambiente che, per evitare il rischio di incroci interspecifici, complicano sempre più, tanto più sono numerose, i loro rituali di corteggiamento. È per questo che talora sono così complessi i canti dei piccoli uccelli canori. Ogni specie, in definitiva, è causa e effetto della diversità che contraddistingue lei e le specie che le sono affini. E ancora penso a come la presenza di una preda influenzi certe caratteristiche dei predatori. I rapaci notturni volano senza produrre ultrasuoni perché altrimenti non riuscirebbero a catturare i roditori; unica eccezione poche specie di civette e gufi che, predando pesci, sono diventate "rumorose" perché tanto, con i pesci, segnali acustici come quelli emessi dal loro volo non producono alcun effetto di fuga.

Insomma, la biodiversità è il frutto di un processo evolutivo ove ogni specie animale e vegetale in qualche modo fa la parte della selezione naturale per le altre. Risulta chiaro, così, come ogni specie che viene per qualche motivo a mancare determini squilibri, sprechi energetici, disagi per la sopravvivenza delle altre. E lo stesso può dirsi, se non peggio, quando una specie estranea viene incautamente introdotta (si pensi alla distruzione della preesistente fauna ittica provocata dall’introduzione del Siluro del Danubio nel Po).

E occorre anche soffermarsi sulla diversità all’interno della specie. Per esempio si rilevano, sempre più spesso, nell’ambito della distribuzione geografica, microvariazioni di origine genetica o culturale che rispecchiano adattamenti speciali che rendono ardue immissioni (ripopolamenti) che non ne tengano conto. Per non parlare, poi, di quanto avviene all’interno delle specie sociali per effetto di forme speciali di selezioni che nascono nell’ambito stesso della socialità. Con il crescere di questa infatti compaiono gli specialismi. In una specie molto sociale, in altre parole, i vari individui contribuiscono in modo differente alla vita di tutti. La biodiversità intraspecifica è incrementata dalle gerarchie, dalla presenza di ruoli accessori per la riproduzione o per l’allevamento della prole, dalle capacità di certi individui di dare l’allarme, eccetera. Di grande e attuale interesse, inoltre, è la constatazione che, in un gran numero di specie, particolari individui sono in grado di sviluppare strategie alternative per differenti comportamenti. Tra questi, certamente, il più frequentemente osservato è il comportamento riproduttivo, ma merita citare anche il comportamento predatorio e l’alimentare. È chiaro che l’opera di mantenimento di specie caratterizzate da un’ampia e differenziata diversità comportamentale intraspecifica deve tenere conto non solo del numero minimo di individui indispensabili per la sopravvivenza, numero ovviamente assai elevato, ma anche della sopravvivenza, genetica o culturale, delle specializzazioni.

Ma il discorso sulla biodiversità all’interno della specie non si esaurisce qui. Esistono altri due punti di notevole interesse generale: la biodiversità delle piante e degli animali domestici e quella propria della specie umana.

Solo poche parole per quanto riguarda i domestici. L’addomesticamento è un processo di evoluzione biologica dipendente dall’evoluzione culturale umana. I recenti progressi della biologia hanno determinato, attraverso l’ingegneria genetica e le altre biotecnologie, la comparsa e il successo di animali e vegetali nuovi e diversi che stanno in vario modo soppiantando le antiche razze, che per buona parte sono già estinte. Da qui nasce la necessità della protezione di un patrimonio genetico di adattamenti a singole situazioni geografiche, nonché di un valore che va al di là della pura biologia, perché le antiche razze di piante e di animali, rappresentando la memoria di antiche culture contadine e pastorali, rappresentano e certificano identità storiche non impunemente vanificabili. E ciò mi porta, seppure per una via che potrebbe essere considerata secondaria, a trattare del ben più coinvolgente e delicato problema della biodiversità - genetica e culturale - della specie umana.

Ebbene, il concetto stesso, così popolare, di villaggio globale, ci attesta la crescente banalizzazione, la tendenza all’uniformità culturale (e in parte anche genetica) della nostra specie. Questa banalizzazione, insieme col sovraffollamento, produce in molte parti del mondo scenari sconsolanti, moltitudini di poveri senza una identità e senza valori.

In un’ingenua speranza che, negando l’esistenza delle razze, si abolisse il razzismo, s’è giocato a inventare eufemismi, col triste risultato che oggi, invece del razzismo, abbiamo la "pulizia etnica". Forse è vero: forse le razze umane, in senso strettamente sistematico, non esistono, o non esistono più a causa dei notevoli mescolamenti genetici. Però non è certo giocando con le parole che si risolvono i problemi. Il fatto è che le differenze (siano esse razziali o etniche), a mio parere, se ci sono è meglio evidenziarle cogliendole come un valore, piuttosto che negarle a ogni costo.

La specie umana era frammentata in entità genetiche che, è vero, in molti casi le migrazioni (tra cui quelle imposte, di cui l’esempio più estremo e crudele è lo schiavismo), le sovrapposizioni, le conquiste, le esplorazioni hanno in vario modo mescolato. Questa aumentata uniformità genetica globale (caratterizzata da un’incrementata diversità tra gli individui all’interno delle popolazioni) è un sottoprodotto, per certi versi anche positivo e comunque inevitabile, della nostra evoluzione culturale. Ma sovrapposta alla precedente diversità genetica, e certamente molto più determinante per la nostra specie, esisteva una diversità culturale. Questa diversità di culture era un patrimonio dell’umanità, ed è un patrimonio che si va tragicamente perdendo.

Al di là di ogni assurda gerarchia (ogni cultura trova ovviamente nel suo contesto il suo preciso significato adattativo) pare utile che si acquisisca la consapevolezza che la biodiversità, anche quella culturale, è comunque un valore, un patrimonio che merita rispetto e protezione, perché la grande forza, il successo della nostra specie, si è sempre basato sulla diversità tra gli uomini.

Giunto al termine di questa mia esposizione, non vorrei concludere né lasciandomi andare a catastrofismi né simulando un ottimismo purtroppo attualmente poco giustificato dai fatti. Vorrei però, ribadendo un concetto già espresso, fare un’osservazione a mio parere di forte significato propositivo: l’uomo, in quanto essere culturale, ha effettive e concrete potenzialità per un’inversione di rotta. Nella storia della vita gli esseri che esprimevano comportamenti maladattativi si sono tutti estinti: i musei sono affollati di specie fossili. Noi però non siamo dinosauri, le nostre istruzioni comportamentali non sono scritte in modo rigido nei nostri geni (il che sarebbe la nostra con danna) ma nella nostra cultura. Noi possediamo le potenzialità, in senso strettamente biologico, per prendere coscienza e rapidamente cambiare i nostri comportamenti. Sono convinto, e molti con me, che i prossimi pochi decenni saranno a questo proposito decisivi per il futuro dell’umanità.

Ciò detto, mi preme concludere ribadendo sinteticamente i tre punti che ritengo di maggiore importanza perché una svolta positiva possa avvenire.

1 – Considerato lo strapotere della specie umana sulla natura, è necessario un progressivo, consapevole slittamento verso ciò che per consuetudine viene denominato come biocentrismo, o ecocentrismo, ma che, personalmente, preferisco più realisticamente definire un antropocentrismo illuminato, o lungimirante.

2 – Nel prendere decisioni che possono avere un impatto ambientale è indispensabile ricordarsi sempre che l’uomo è parte della natura e comunque sottoposto alle sue regole. Pertanto non bisogna mai valutare, quando il nostro comportamento ha un impatto sulla natura, esclusivamente i vantaggi sui tempi brevi propri del nostro consueto modo di agire, ma anche preoccuparci (ormai possediamo gli strumenti conoscitivi necessari) delle ricadute negative sui tempi lunghi propri della storia della vita.

3 – Programmi con benefici su tempi lunghi - piani cioè a lungo o a lunghissimo termine, che poi sono gli unici che hanno un senso in campo ambientale - sono difficili da fare accettare, in un ambito democratico, se non esiste un’adeguata e condivisa consapevolezza e preparazione di carattere ecologico-naturalistico. Tali piani infatti costano sempre, su tempi brevi, sacrifici.

Ecco allora emergere forte la necessità di un generalizzato cambiamento culturale. Si è spesso affermato, e giustamente, che la nostra tradizione ha sempre privilegiato una preparazione di tipo umanistico deprimendo, penalizzando, talora addirittura ghettizzando la cultura scientifica. Ciò che ora pare essenziale è l’acquisizione che le scienze dell’ambiente non potranno che rappresentare quell’area del sapere fondamentale per il nostro benessere e forse la nostra stessa sopravvivenza. Un’area, di conseguenza, che non potrà mai più essere impunemente trascurata. E questa acquisizione, a mio parere, non dovrebbe tanto portare a un rovesciamento della gerarchia dei valori nell’ambito delle varie aree culturali, considerate tra loro, come troppo spesso accade, in contrapposizione, quanto piuttosto a una penetrazione del sapere ecologico all’interno stesso delle altre aree in cui la cultura si suddivide. Penso soprattutto, per il ruolo che giocano a livello delle grandi scelte che determinano il destino delle popolazioni umane, alle scienze politiche, a quelle economiche. Ma certo penso anche ai filosofi, agli umanisti, a ogni essere umano, in definitiva, perché ogni uomo, in quanto "animale culturale", e pertanto per buona parte svincolato dall’atavica sapienza degli istinti, dovrebbe, necessariamente, possedere una cultura adattativa. Perché è da questa, e soltanto da questa ormai, che possono emergere le strategie utili per la sopravvivenza.

(1) Il presente testo rappresenta una versione aggiornata, ampliata e parzialmente modificata nei contenuti concettuali, della prolusione tenuta dall’autore per l’inaugurazione dell’anno accademico 1995-96 dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, pubblicato col titolo "L’impatto dell’uomo sulla natura" (Prolusioni, Università Ca’ Foscari, 1996, pp. 1-35).

(2) Un altro impressionante attuale esempio di disadattamento provocato in organismi animali e vegetali dall’evoluzione culturale umana è rappresentato dalla produzione annua (e potenziale immissione nell’ambiente) di decine di migliaia (in media 25.000) di composti di sintesi per i quali non è immaginabile alcun preadattamento dovuto a coevoluzione. Di queste molecole non naturali ne vengono annualmente commercializzate e usate su ampia scala tra 500 e 1.000.

(3) È mia opinione che un evento in origine fondamentale per lo svilupparsi dell’idea dell’uomo al di fuori e/o al di sopra della natura sia stato il differenziarsi e lo specializzarsi delle attività professionali conseguente all’aumento delle risorse dovuto alla scoperta della pastorizia e dell’agricoltura. Con la nascita di villaggi, paesi e città comparvero infatti i primi "specialisti" (e cioè, accanto ad agricoltori, allevatori e pastori, guerrieri, sacerdoti, filosofi, maestri, contabili, costruttori ecc.), persone queste che, necessariamente, persero per buona parte il contatto e la raffinata conoscenza della natura, elementi invece sempre presenti, ed essenziali per la sopravvivenza, nel precedente stile di vita da cacciatori-raccoglitori. Questi nuovi "specialisti" si trovarono, infatti, sia per l’effettivo scollamento con la natura, sia per la progressiva perdita di pratiche conoscenze naturalistiche, nella condizione ottimale perché potesse svilupparsi nella loro mente l’idea illusoria di un certo tipo di onnipotenza sulla natura stessa, immaginata come, da un lato, estranea e "foresta", e dall’altro ricca di risorse inestinguibili da prelevare.

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