Cinema15
Da Ortosociale.
"Locke" di Steven Knight, recitato da Tom Hardy. Ivan Locke, chiuso nell'abitacolo confortevole della sua BMW, infastidito da un raffreddore, guida nella notte verso Londra. Si vedono solo il viso di Locke, il visore del telefono sul cruscotto, le luci della autostrada che gli disegnano il volto. Il dialogo telefonico è continuo. Deve risolvere due problemi: portare a buon fine una enorme colata di cemento senza poter essere presente sul lavoro, e gestire una drammatica crisi familiare. Sposato felicemente con Katrina, scopre che sta per nascergli un figlio, da un'altra donna, Bethan, in quella stessa notte. Decide di aiutare Bethan, perdendo il lavoro e la moglie, e i due figli. Il film è quasi in "tempo reale": 1 ora e 15 min di viaggio, 80 minuti di film. Non ci sono flashback, salti di scena, tranne qualche raro "fuoriscena" sull'asfalto, sulla segnaletica, sul traffico, sui fianchi lucidi della BMW, sui lampioni della tangenziale. Il dialogo telefonico ininterrotto e le espressioni pacate di Ivan costruiscono un flusso di coscienza collettivo. Ero partito prevenuto pensando a un film pretenzioso di virtuosismo narrativo. Invece il film è godibilissimo, fluido, quasi piacevole, naturale, amichevole nel porgerti le sensazioni. L'unico elemento veramete drammatico, raro e intermittente ma molto violento, è la "maledizione del padre", che Ivan mette a fuoco guardando con un'espressione di odio lo specchietto retrovisore. Il padre che lo aveva abbandonato nella culla, per ricomparire quando lui aveva 23 anni. Il padre che lui decide di essere per il bambino, suo figlio, che stava nascendo a sua insaputa. La sceneggiatura è magistrale, tipica di quegli scrittori "che conoscono la vita". La sua "sociologia del lavoro" è fantastica, come di chi ha veramente vissuto in un cantiere, o in una multinazionale con sede a Chicago come quella che lo licenzia. Sociologia che si conclude nel con una simpatica battuta anticapitalistica: "oggi ho imparato due parole nuove: Vaffanculo e Chicago". Il paesaggio urbano, il paesaggio di questa infrastruttura urbana, una autostrada-tangenziale illuminata come un salotto, che si prende cura di noi con ossessive indicazioni di svolta pericolosa, è anche il nostro paesaggio interiore. Il contrappunto tra lavoro e amore, tra la costruzione delle enormi fondamenta di un grattacielo (moderna cattedrale gotica?) e la distruzione della rete familiare, procede come due mondi paralleli, senza frizioni, senza contatti, senza interferenze. In questo senso il mondo del lavoro è "inumano", quello familiare "umano, troppo umano". Dice "mymovies.it": "il film parla della estrema fragilità degli edifici morali sui quali costruiamo le nostre famiglie e le nostre sicurezze". E' sufficiente tutto lo "spazio pubblico" di Habermas a contenere questo fiume in piena?